Stuart Gordon: il mio Frankenstein

Ricordiamo il regista con una testimonianza sulla genesi di Re-Animator
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Appresa la triste notizia della scomparsa di Stuart Gordon ricordiamo il regista con un sua testimonianza sulla genesi del cult Re-Animator raccontata durante un’intervista per Nocturno.

«Fu un amico a consigliarmi di girare un film dell’orrore: mi disse che era il metodo più semplice per trovare fondi e che gli investitori, di norma, con un horror recuperavano i soldi. Lavoravo nel teatro a quel tempo e all’inizio pensai persino di organizzare il film con la compagnia teatrale e nel teatro stesso. Ma trovai un muro, perché quelli rifiutavano l’idea di un horror, avrebbero accettato solo se avessi proposto un film artistico, impegnato. Ma un horror, proprio no. Mi ricordo che iniziai a pensare a Re-Animator avendo soprattutto la figura di Frankenstein come fonte d’ispirazione. Stavo parlando con una donna, un giorno, e mi lamentavo del fatto che tutti volessero fare film sui vampiri, mentre a me piaceva molto il mito di Frankenstein. Lei, a quel punto, mi suggerì di leggere Herbert West di Lovecraft. Io conoscevo Lovecraft, ma quel racconto mi era sfuggito. Lo recuperai e ricordo che feci molta fatica, perché stava in una edizione fuori commercio. Una volta letto, iniziai subito a pensare come adattarlo per il cinema. In prima battuta, doveva diventare una specie di serie televisiva, qualcosa del genere. Perché avevo lavorato con la televisione, partendo da  una commedia che facevamo a teatro, Bleacher Bums. Andai da quelli che conoscevo proponendo loro una serie di sei puntate. Lovecraft lo aveva scritto con una struttura che si prestava a un adattamento seriale. Studiammo degli episodi di mezzora, poi di un’ora, ma il progetto con la tv non riuscimmo a quadrarlo: loro non erano convinti, non ci credevano. Insomma, proprio mentre il progetto come idea per il piccolo schermo stava saltando, incontrai Yuzna, che era alla ricerca di qualcosa da fare in quel momento. Glielo proposi, a lui piacque e partimmo a farlo, come film. Brian fece subito un accordo con Charles Band e la sua compagnia, la Empire Pictures. Cedette loro i diritti di distribuzione e in cambio ottenne che Band si occupasse di tutta la post-produzione. Ma la Empire intervenne massicciamente anche in fase realizzativa. Fu Band a insistere, per esempio, che sostituissimo il direttore della fotografia che avevamo scelto con Mac Ahlberg. Avevamo iniziato a girare con il primo DOP per una settimana, all’incirca, e ricordo che visionando il materiale, Charlie trovò che alcune riprese erano venute troppo scure. Così, insistette perché facessimo subentrare Ahlberg, e fu un’ottima idea, devo dire.

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Il colpo grosso rispetto al cast fu Jeffrey Combs, che entrò nel film grazie al direttore del casting, Anthony Barnao. Come ho cominciato ad ascoltarlo mentre leggeva la parte, ho saputo che era lui, anche se non corrispondeva al tipo descritto da Lovecraft, un biondo con gli occhi azzurri. L’attrice non era la Crampton, in prima battuta. Ne avevo scelto un’altra che però aveva la  madre che le faceva da ostacolo ed era incerta. Non mi ricordo nemmeno come si chiamava. Barbara mi arrivò dallo stesso direttore del casting. Era perfetta. Feci con gli attori una preparazione molto teatrale: ci chiudemmo nella casa di Barbara per una ventina di giorni, provando le battute, discutendo delle motivazioni dei personaggi e cose del genere. Perché sapevo benissimo che una volta battuto il primo ciak, avremmo dovuto correre, sul set, e non ci sarebbe stato più il tempo di discutere, di confrontarsi con gli attori. Arrivarono preparatissimi e questo creò le condizioni perfette, li mise a proprio agio. Le riprese di Re-Animator durarono diciotto giorni, anche se abbiamo poi dovuto rifare la scena di apertura diverse settimane dopo. Era stata eliminata dalla sceneggiatura, ma quando Brian vide il primo montaggio, ritenne che fosse indispensabile introdurla, perché chiariva allo spettatore fin dall’inizio, che tipo di film lo attendeva. Sulla sceneggiatura ci siamo rimasti moltissimo, per limarla, adattarla e renderla fattibile per le nostre economie. Alla fine, era stata ripulita ed essenzializzata al massimo. Pochi personaggi, poche location, quasi solo interni. Tutta una sotto-trama che si imperniava sulle virtù ipnotiche del Dottor Hill, venne eliminata dal copione su suggerimento del padre di Charlie Band, Albert, perché secondo lui bastava l’idea del siero capace di resuscitare i morti come elemento “fantastico” e aggiungerne un altro avrebbe distratto l’attenzione. Tutto doveva essere molto diretto e veloce. In un film del genere, un horror con spargimento di molto sangue, non ti puoi concedere il lusso di ripetere le scene più cruente, perché questo implica ripulire la location, cioè perdere un sacco di tempo preziosissimo. Facemmo uno screening di prova a San Francisco, per testare le reazioni del pubblico. E alla fine, quando si vede Meg morta sul tavolo, si alzò una voce dal pubblico gridando: “Usa il siero!”. A quel punto, capii che il film funzionava. Decidemmo di farlo uscire senza alcun taglio, a parte una nudità frontale maschile, totale, che togliemmo perché ci sarebbe costata una X con la censura americana. Ma la Empire, per il resto, affrontò le sale con la versione unrated, con grande coraggio. E del resto, se avessimo cercato di adeguarci agli standard della censura, il film sarebbe durato al massimo un quarto d’ora…».