Stefano Sollima: un velocissimo Adagio

A proposito del capolavoro del regista

Quello che segue è un estratto della lunga intervista con Stefano Sollima che troverete in forma integrale sul numero 251 di Nocturno. Ho avuto la possibilità di vedere il suo nuovo noir appena dopo Venezia e Adagio, in uscita domani 14 dicembre al cinema, mi è parso  un capolavoro. Una lezione di regia, di stile, memorabile, al netto della bravura degli interpreti: Pierfrancesco Favino, Tony Servillo, Adriano Giannini, Valerio Mastandrea e il giovane Gianmarco Franchini. E da questo sono partito a parlare con Stefano

Allora: io sono convinto che Adagio sia il tuo miglior film, senza stare a girarci troppo attorno… 

Addirittura?  

Sì… Mi sono rivisto  in sequenza, gli altri tuoi lunghi: ne avevo voglia… anche perché mi sta frullando per la testa un’idea di cui ti parlerò quando avrai finito di girare Il Mostro di Firenze. Ma il titolo… intanto: Adagio 

Adagio, perché mi sembrava il “giusto passo” per entrare nel racconto di queste tre vecchie leggende, ciancicate, distrutte dalla vita, piene di rimpianti. Mi sembrava bello… E, tra l’altro, è un titolo italiano che non verrebbe mortificato dalla distribuzione estera. Cioè, verrebbe letto e pronunciato abbastanza correttamente ovunque nel mondo.  Ma “adagio” è anche il tempo musicale… applicato, ovviamente, ai personaggi. 

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Stefano Sollima

Una delle  cose che colpiscono, nel film, è che all’inizio i personaggi sono segnati da un “movimento lento”. Valerio Mastandrea, ma soprattutto gli altri due “relitti” della Banda della Magliana, Favino e Servillo, sono caratterizzati da una lentezza che, però, si può trasformare, improvvisamente, in velocità. La scena di Daytona che balza nella macchina di Giannini e gli mette il coltello alla gola: giusto per citare una delle più belle, se non la più bella in assoluto. Un momento incredibile… Tu hai parlato di un soggetto iniziale che era di poche pagine… 

Sì. Adagio nasce sostanzialmente da un atto egoistico: la voglia di tornare a girare a Roma. In questi ultimi anni avevo lavorato sempre fuori. Era da Suburra che non giravo a Roma. Allora, c’era un’idea che mi frullava per la testa: “Mi piacerebbe tantissimo ri-raccontare Roma”, continuavo a pensare. E, soprattutto, poter “rivivere” Roma. Quindi, Adagio parte da quello, da un’idea molto semplice: tre anziani, tre “rottami”, che un tempo avevano contato, ma che oggi non sono più assolutamente niente. Sono uomini pieni di rimpianti, uomini che hanno soltanto sbagliato, nella vita, e che si riuniscono casualmente, intorno a un ragazzino. E tentano un disperato atto di redenzione, impossibile. Siamo partiti da questo, da tre vecchi, anche fisicamente ormai martoriati, uno cieco, uno malato terminale, l’altro in preda, più o meno, all’Alzheimer… Abbiamo iniziato a scrivere, immaginandoci tutto in una notte, con un racconto che fosse lineare e che permettesse a questi tre personaggi di ingaggiarsi, però in un tempo di racconto compresso. Il trattamento era di venti, venticinque pagine, e viene riflesso esattamente dal film che hai visto, in modo preciso e puntuale. L’ho condiviso con amici, di vecchia data e nuovi, e ho trovato subito un gruppo sia di attori, sia di finanziatori. E siccome ciascuno degli interpreti aveva degli incastri lavorativi precedenti alla lettura del trattamento, e volendo e dovendo noi girare d’estate, abbiamo iniziato a lavorare sullo script vero e proprio già avendo in mente gli attori, che è stata una bellissima avventura e ha fatto, ovviamente, cambiare il passo del film, nel senso che l’Adagio che stavamo scrivendo ha cominciato a diventare un “presto, prestissimo”… (ride). Esperienza anche inusuale, che fin da subito si è profilata come un lavoro collettivo: cioè, quello che faresti dopo, una volta ultimata la sceneggiatura, con gli attori, con la lettura, con le rifiniture, con l’adattamento della storia agli interpreti, noi l’abbiamo fatto durante.  

Adagio completa una trilogia… 

Ma sì, come una sorta di canto funebre del mondo criminale che ho raccontato, in diverse declinazioni, negli ultimi dieci anni. Mi sembrava il giusto film per chiudere.  

Porterei il discorso sullo sfondo, di Adagio. Già te lo dissi, in altre conversazioni, che di quinta ai tuoi film, si avverte sempre il senso della fine di un tempo, o dei tempi, in generale. Questa volta è ancora più accentuato: ci sono gli incendi che assediano la città. C’è quella grande scena degli uccelli in fuga, che riempiono il cielo… Il tono, in qualche maniera, è apocalittico, domina il sentore della fine: ha a che vedere non solo con il tempo, questo, ma anche con lo spazio. Mi è difficile esprimerlo bene a parole… C’è anche la faccenda del blackout… 

Ma guarda, quelli, anche i blackout, paradossalmente, sono avvenimenti realistici declinati in allegoria, perché nel momento in cui stavamo scrivendo, Roma era assediata dagli incendi e c’era un blackout ogni dieci minuti. Un elemento del reale, quindi, che qui ti aiuta a dare uno sfondo. Lo sfondo di un mondo in cui vivono tre ex criminali, che è ancora più cinico, caotico e feroce di quello che avevano governato loro. Ti aiuta a rappresentare una città ormai governata, appunto, dal caos. E, sì, certo, allegoricamente, è la fine di quel mondo, del loro mondo.    

FAVINO_FRANCHINI_foto di Emanuela Scarpa

Pierfrancesco Favino e Gianmarco Franchini

Al di là di loro tre, Servillo, Favino e Mastandrea, qui abbiamo un antagonista, Adriano Giannini, che è potentissimo. Di solito, nei noir, la debolezza sta sempre un po’ negli antagonisti. Invece, lui qui è straordinario, è compiuto, è possibile… Da una parte buon padre di famiglia, dall’altra, un figlio di puttana  pazzesco… 

… Ed è l’unico vero padre! Perché, poi, quello è l’altro tema vero del racconto, ben occultato sotto la superficie del genere. Perché Adagio è anche un racconto sui padri, sui figli, sulle vecchie e le nuove generazioni. Le vecchie generazioni che dovrebbero, a questo punto, essere pronte anche a fare un passo indietro, essere pronte al sacrificio per portare avanti il nuovo. Di lì, mi è venuta l’idea di affidare al villain il ruolo di padre modello, che gli dà una dimensione tragica e dà anche un perché alle sue azioni spietate. Agisce con violenza, con disinvoltura, infrangendo la legge che dovrebbe rappresentare, però, alla fine, lo fa per proteggere i propri figli. E Giannini è il padre più presente, no? Mi ha interessato, questo, anche perché non è un tema molto rappresentato al cinema, il rapporto padre-figlio, escludendo dal triangolo la figura femminile. Per questo, ho voluto tenerlo come sottotraccia emotiva. Giannini ha fatto anche un lavoro di trasformazione fisica, posturale, si è messo le lenti a contatto nere: attorialmente, davvero un lavoro gigantesco.  

Ho sentito sia lui sia Favino parlare molto, appunto, del training che hanno fatto sul corpo, per Adagio, anche in rispondenza allo studio sugli spazi. A parte che c’è una fotografia, che va in appoggio ai volumi, ai corpi e allo spazio e alla loro dialettica, incredibile…  

Eh, Paolo Carnera è veramente un maestro. Io ci lavoro da… boh, quindici anni? Lui ha fatto praticamente tutto quello che ho fatto io.  Rispetto agli attori, cioè rispetto ai personaggi, nella messa in scena, io cerco sempre di fare una sorta di ideale passo indietro. E trovo che sia rispettoso nei confronti, uno, degli attori, e, uno, dei personaggi che vuoi raccontare. E questo lo fai lasciando “uno spazio”, agli attori, che è una questione di inquadrature e che comporta di non introdurre movimenti di macchina velleitari, che alla fine ti distraggono e che, soprattutto, costringono l’attore a muoversi in uno spazio troppo predeterminato. Quindi, gli ho lasciato, proprio fisicamente, aria, spazio e libertà di muoversi, proprio per raccontare i personaggi anche con l’uso del corpo. Si tratta, quindi, della combinazione di due elementi: stare un passo indietro durante la performance dell’attore e lasciargli, in termini di inquadratura, uno spazio in cui non ci sia soltanto il primo piano, ma anche la possibilità di esprimersi attraverso l’uso di tutto il corpo.  

Infatti, usi molto inquadrature ampie, il che dà anche un respiro alla storia epico, scultoreo, in qualche modo. Tra la luce e le inquadrature, viene fuori il senso di qualcosa che è nello stesso tempo grande, tragico e, insisto, di qualcosa che va verso l’epica, se vogliamo. Adesso, tu mi stai dando una giustificazione logica del perché il film è stato girato in questo modo, però il risultato ha un respiro incredibilmente ampio…   

Credo sia anche un processo di evoluzione, per me. Una cosa che ho notato, proprio rispetto al mio approccio alla messa in scena, è che tendo a girare, intanto, più largo, con meno tagli. Come se il processo ti portasse a distillare, a scegliere le poche inquadrature che, però, rafforzano il racconto, senza interferire, senza distrarre. Una sorta di minimalismo, nel tentativo di rappresentare una scena, magari elaborata, in modo piuttosto essenziale.     

Foto di scena_no credits

Pierfrancesco Favino è Cammello

Torniamo al discorso del controllo, alla lucidità che riesci ad ottenere facendo, come hai detto, un passo indietro. Un modo quasi matematico di porsi rispetto all’inquadratura, essenzializzandola ed asciugandola; ed è in crescita, sono d’accordo. L’avevo già notato e ne avevo scritto, per i tuoi film precedenti, ma qui è molto evidente… Alla base, c’è un controllo della madonna della macchina cinema… 

Ma io penso che poi sia quello, l’arcano, alla fine: avere il controllo assoluto e allo stesso tempo fare il passo indietro: far scomparire il tuo controllo e dedicarlo ai personaggi, amandoli: perché è una forma di rispetto e di amore. È il motivo per cui adesso lavoro molto, moltissimo, sulla scrittura e sulla recitazione, che sono le due colonne portanti di un buon film.   

Possiamo ancora parlare di noir? 

… Sì, è un noir… 

Un noir, però, alla Sollima, siamo sempre là… 

Beh, tu considera che la produzione ancora mi sfotte e mi prende in giro, perché… quando ho spiegato a tutti il progetto che avevo in mente, ho definito Adagio un film “intimista”, cioè un film molto più sui caratteri che sull’azione. Poi è comunque diventato un film spettacolare ed è il motivo per cui mi prendevano in giro: “Sì, vabbè…”. Perché abbiamo spento le luci di parti della città eccetera eccetera, facendo un uso della macchina cinematografica piuttosto elaborato. Però, per me partiva come un film intimo, in cui gran parte dello sforzo narrativo era raccontare questi miei personaggi, più che quello in cui si trovavano coinvolti. Era importante ciò che vivevano e – soprattutto era questa la difficoltà –, avendo una narrazione in tempo reale, riuscire a illustrare bene i legami emotivi tra tutti i personaggi che, mano a mano, conosciamo nel film e che sono tutti assolutamente proiettati all’indietro nel tempo.   

Torno al tema della “redenzione”. Tu, quindi, vedi loro tre come in cerca di una redenzione? 

No… però, a un certo punto… anche sì. Perché poi tutti e tre, ciascuno di loro, all’ultimo secondo, si “sacrificano”. Quindi, un po’ sì. E anche per questo lo trovo un film forte, ma tutto sommato anche romantico… forse è il film più romantico tra quelli che ho fatto. Ciascuno di loro tre trova il suo momento di riscatto, anche se per motivi completamente diversi. Pol Niuman, comunque, si fa uccidere, ma le ultime parole che gli dice sono: “Il ragazzino non lo troverete mai!”. Cammello ha passato gli ultimi anni a cercare di ricucire lo strappo con la moglie, però all’ultimo secondo sceglie il ragazzino, perché sa che l’ha messo lui nei guai e che questi l’avrebbero trovato e probabilmente ucciso, e quindi va a sparare… Ovvio, non è più il pistolero di una volta, però sta morendo e decide che l’ultimo suo atto sia quello di proteggere Manuel. E lo stesso, Tony: nel momento in cui potrebbe dire dove sta il ragazzino, continua a fingere di essere via di testa… 

FAVINO_SERVILLO_foto di Emanuela Scarpa

Piefrancesco Favino e Tony Servillo, Cammello e Daytona

Eh, questa fantastica ambiguità di Daytona: ha l’Alzheimer, finge, forse è ma forse non è, dissimula… L’inquadratura di quando sta camminando, rasoterra, e cambia improvvisamente il ritmo del passo, da veloce a rallentato… 

Sì, perché lì è giusto non sapere quanto ci sia e quanto ci faccia. Però, dall’altra parte, è giusto che tu sappia che nell’ultimo momento dell’interrogatorio con Giannini, lui, ovviamente, è in sé e, ovviamente, decide di non rispondergli… 

I minimi dettagli in questo film sono fondamentali, li hai curati con enorme attenzione… Al di là della bellezza globale, sono rimasto colpito dalla precisione dei dettagli, da queste sottolineature che sono perfette quando e dove cadono… Quindi, tanto di cappello. Poi, quando vedrò Il mostro di Firenze che stai girando, magari mi ricrederò… Non ti faccio domande perché so che c’è la totale consegna del silenzio… 

No, non ne posso parlare… Proprio niente posso dire (ride)