Rwanda – Il film

Un reportage dal set del docufilm di Marco Cortesi e Mara Moschini

La location era stata tenuta nascosta al pubblico per evitare visite indesiderate. L’unica informazione ufficiale era che nel mese di agosto, da qualche parte nell’indefinito spazio che corre tra Forlì e il suo circondario, si sarebbero tenute le riprese del lungometraggio Rwanda – Il film. Nato da un’idea degli attori Marco Cortesi e Mara Moschini – tra i più apprezzati autori e interpreti della nuova generazione di Teatro Civile -, il docu-film prende spunto dall’ultima tournée che la coppia ha portato in giro per l’Italia. Teatro Civile vuol dire raccontare nel senso più edificante del termine: raccontare per informare, informare per pungolare il pensiero critico dello spettatore. Così, dopo aver affrontato i temi della pena di morte (L’Esecutore) e sciorinato le efferatezze delle guerre jugoslave (La Scelta), la coppia ha scelto di concentrarsi su una grave pagina nera della recente storia africana: il genocidio del Rwanda.

Un denso odore di nafta accompagna il tragitto dal parcheggio al luogo delle riprese. Sotto il cielo terso della notte di ferragosto, appartati dietro una collinetta ai margini di un laghetto di pescatori, gli attori e il personale si preparano a girare. È una scena semplice: Marco Cortesi gira in bicicletta per una strada disseminata di fuochi accesi, case diroccate e soldati hutu che passeggiano mitra alla mano. Tutt’attorno un ridente gruppo di ragazzi frascheggia e scherza nelle pause con l’attore che, in alcuni momenti di tensione, richiama al silenzio. In quello che effettivamente è un campo da softair si alternano varie scenografie, con due elementi che compaiono costantemente: barili di nafta, perennemente infuocati e gruppi di soldati dalla pelle nera, a decine sparsi a bivaccare, in attesa del momento della comparsa.

     Rwanda – Il film narra la vera storia di due ragazzi, Augustine e Cecile, che il destino farà incontrare in quella primavera di sangue del 1994, lui in veste di carnefice hutu, lei di vittima tutsi. Ma la loro è una storia di solidarietà e coraggio, che non segue il tragico copione che ha portato alla morte di oltre 800.000 persone in Rwanda durante il genocidio; Augustine getterà il machete e farà la cosa giusta. Hutu e tutsi, divisione sociale endemica della società ruandese, e infine esasperata. Ma allontanandoci dalla massa si incontrano le persone, ognuna con il suo ruolo, attori e comparse sul proscenio della Storia. Diogene era solo un bambino quando la violenza cieca è esplosa nel suo piccolo Paese dell’Africa orientale. Poi gli eventi hanno avuto il loro corso ed ora è qui, seduto su una sedia in un angolo del set a raccontarmi la sua vita.

Nato nell’agosto del 91’, il mese successivo era morta la madre a causa della gravidanza ed era stato così affidato ad un orfanotrofio gestito dai volontari occidentali dell’associazione Museke. «Mi immagino sempre questa scena quando penso alla mia nascita: mia madre in un campo che ad un certo punto si accascia a terra e partorisce. Così, senza l’aiuto di medici o altro». Il padre nel frattempo trova un’altra donna, ma continua ad andare a trovarlo mensilmente. Poi succede l’inevitabile. Dal 6 aprile del 1994, data dell’attentato ai danni del presidente ruandese, è tutto un crescendo di violenza. I militari vanno a cercare gli europei per portali in salvo, ma i volontari non vogliono abbandonare i bambini dell’orfanotrofio. Così decidono di portarli in Italia, dove potranno iniziare una nuova vita.

«Dopo aver raggiunto l’Italia ci divisero. Eravamo 41 bambini e finimmo quasi tutti adottati a Brescia, precisamente a Castelnedolo, dove risiedeva l’associazione Museke». Diogene parla un italiano perfetto, a tratti forbito. È un ragazzo inserito nel suo contesto sociale, ha avuto la possibilità di costruirsi una vita nel nostro paese e di studiare. Si è lasciato ormai il passato alle spalle, ma in questo film, in cui interpreta uno dei ruoli principali, è dovuto tornare indietro e scontrarsi con le travagliate vicende del suo Paese, per affrontare la sfida più ardua: assurgere al ruolo di carnefice. «Nel film faccio la parte del carnefice. Mi hanno chiesto se fosse un problema perché alcuni hanno rifiutato per questo motivo. Io invece sentivo il bisogno di provare come ci si sente ad essere un carnefice, in questa strage che ha sterminato tra gli 800.000 e 1.200.000 ruandesi. È come se dovessi superare questo trauma, anche se in realtà ero piccolo all’epoca»

Abbandono Diogene che viene prontamente richiamato in scena e mi dirigo verso altre zone del set. Cammino per il prato e faccio qualche foto alle comparse. Sono migranti, che si sono offerti di partecipare al film per contribuire al racconto di questa tragica ma importante storia africana. A volte non capiscono bene le indicazioni della troupe e le scene devono essere ripetute più volte. Ma la loro atarassia è degna di rispetto e, come in una grande famiglia, si cerca di capirsi e di aiutarsi, frenando i nervi e lasciandosi andare a qualche risata conviviale. Deambulo tra le scenografie finché una ragazza non rapisce la mia attenzione. Una ragazza con lo zaino e la macchina fotografica che gira per il set avvicinandosi agli attori senza discrezione e scattando qualche fotografia: è Mara Moschini, che questa sera non ha scene in programma ma assiste e coadiuva la produzione.

«A vent’anni dal genocidio, nel 2014, abbiamo iniziato la tournée in giro per l’Italia che è durata due anni. L’idea di lasciare una testimonianza video dei nostri spettacoli aveva caratterizzato anche i nostri lavori passati, ma mai avremmo pensato di avvicinarci così tanto al cinema. Pensando allo spettacolo Rwanda, mai avremmo immaginato di poterlo adattare a una trasposizione cinematografica… poi è arrivato il crowdfunding e il sostegno del pubblico e delle associazioni, così è nata l’idea di produrre un film vero e proprio». Il sostegno del crowdfunding è stato la linfa vitale di questo progetto. Una buona parte del budget infatti è stato raccolto attraverso una campagna lanciata nell’ottobre del 2015 sulla piattaforma “Produzioni dal Basso”. La campagna ha avuto un enorme successo, raccogliendo l’inaspettata cifra di oltre 28.000€, e diventando una delle campagne di crowdfunding più finanziate della storica piattaforma. Poi è arrivata la copertura mediatica che ha portato gli sponsor, ed infine l’apporto delle associazioni, più di 65 a sostegno del progetto.

«Siamo molto contenti, ci emoziona l’entusiasmo che il progetto ha raccolto: più o meno l’80% delle persone sul set lavora gratuitamente, perché crede nel progetto. Poi abbiamo molte comparse interpretate da migranti, qui possono essere protagonisti di un pezzo di storia africana. Le ultime riprese si concluderanno a metà ottobre, e puntiamo a concludere la produzione per febbraio 2017. Questo perché vogliamo proporre il nostro film ai concorsi: Cannes, Venezia, Berlino, sperando il meglio! Poi tenteremo la via del cinema e della televisione, su Rai Storia (dove permangono ottimi rapporti per via delle passate collaborazioni ndr)». Una storia africana dal passato, ma che oggi assume più valore. Si osserva bene che l’attualità dei flussi migratori è un nodo che scuote anche Mara, ma ancora non si può sapere se diventerà oggetto di un nuovo spettacolo. «Dopo il film credo che ripartiremo con un nuovo spettacolo teatrale… ma ancora non sappiamo. Un’idea era quella dei migranti… ma ancora non si sa».

Più passa il tempo in questo umido angolo della prima periferia forlivese e più questo progetto assume i connotati di un grande affresco dei nostri tempi. Da una parte la crisi, la penuria economica che consuma i margini del budget, fa crescere la tensione e l’ansia di sforare; ma anche la passione e la perseveranza, con una vincente campagna di crowdfunding, ora anche oggetto di studio in numerose pubblicazioni. Poi l’Africa, che torna a bussare alle nostre porte, con decine e decine di migranti che si sono offerti di fare da comparse, per raccontare assieme questa pagina drammatica del loro continente. Ma anche la voglia di fare dei giovani, che coadiuvano le riprese, per pochi soldi o per nulla, ma con tanta voglia di lasciare la loro firma in un progetto in cui credono. E poi, fuori dalla massa, le persone. Come Diogene e Mara, che affrontano tutto questo senza lasciarsi abbattere. Ma come può sostenersi un film del genere, a primo impatto impossibile da produrre? Nelle parole di Marco Cortesi: «Il segreto è che io ci credo. Noi tutti ci crediamo».