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The Misandrists

2017
Titolo Originale:
The Misandrists
REGIA:
Bruce LaBruce
CAST:
Susanne Sachße (Big Mother)
Viva Ruiz (Sister Dagmar)
Kembra Pfahler (Sister Kembra)

Il nostro giudizio

The Misandrists è un film del 2017, diretto da Bruce LaBruce

Truffaut faceva il gesto della macchina da presa; le femministe, con una delle due mani invertita, simboleggiavano un’altra cosa. Il senso di The Misandrists, dell’enfant terrible del New Queer Cinema Bruce LaBruce, è riassumibile nel secondo segno, anche se da regista farebbe pure il gesto di Truffaut. Ci porta nel paese di “Ger(wo)many”, in una casetta di campagna tra Hänsel e Gretel e Suspiria. È la sede segreta del FLA, Female Liberation Army, un’armata di amazzoni lesbiche che progetta la rivoluzione finale contro il patriarcato, tra addestramenti da marines, come quelli di Full Metal Jacket, divise con il simbolo di Venere come stemma, e lezioni di partenogenesi, la riproduzione asessuata propria di molti gruppi animali, che renderebbe superfluo il maschio. Con insegnanti che sembrano o streghe cattive o maestrine sexy, e la direttrice madre badessa. Siamo tra Sister Act e il Rocky Horror Picture Show. Qual è l’arma segreta di questo gruppo insurrezionalista? Un film porno, ovviamente lesbo, da proiettare in via coatta dopo assalti ai cinema. Girato dalle stesse collegiali: patinato, sensuale, in fotografia flou e con l’uso di uova sode e fragole, che contrasta con la rudezza del porno gay che si è visto prima.

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LaBruce, con The Misandrists, ci fa precipitare in un nuovo delirio, dove le provocazioni sono tante. La preghiera che recitano le ragazze prima dei pasti, che ringrazia il Signore per non averle fatte nascere uomini, corrisponde alla benedizione ebraica di segno opposto. La sessualità come veicolo rivoluzionario, la pornografia come atto di insurrezione, la “pornutopia” dove l’uomo rappresenti il surplus nella concezione marxista. È Il manifesto del FLA dove tornano testi teorici chiave del femminismo, come Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, le teorie del sessuologo Wilhelm Reich, il film Bambule di Eberhard Itzenplitz, scritto da Ulrike Meinhof proprio quando aveva abbracciato la lotta armata, e The Raspberry Reich, opera chiave dello stesso LaBruce. E, volendo, anche Wakamatsu e Pasolini. Tanto che LaBruce suggella questa ideologia con immagini di repertorio di movimenti femministi e lesbici.

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L’apice di questa iconoclastia per il fallo è una scena di evirazione, liturgica, del soldato ferito che le collegiali tenevano nascosto in cantina. Vera – è il filmato di un’operazione di cambiamento di sesso – e disturbante, dalla definizione bassa che contrasta con la fotografia colorata del film. Ma che LaBruce compensa subito con un momento grottesco, il controcampo delle ragazze inondate dagli schizzi di sangue. E la sua macchina da presa esalta l’affascinante ragazza color ebano (Kita Updike), impegnata in sensualissimi momenti saffici: Isolde – nome wagneriano – che si rivela una trans. Ma, come si diceva in A qualcuno piace caldo e in Pat una donna particolare, nessuno è perfetto.