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Small Things Like These

2024
REGIA:
Tim Mielants
CAST:
Cillian Murphy (Bill Furlong)
Eileen Walsh (Eileen Furlong)
Michelle Fairley (Mrs. Wilson)

Il nostro giudizio

Small Things Like These è un film del 2024, diretto da Tim Mielants.

Un cielo plumbeo. Le strade fredde. Una chiesa col campanile. Nella splendida fotografia di un piccolo centro irlandese si apre Small Things Like These di Tim Mielants, protagonista Cillian Murphy, il film che ha inaugurato la Berlinale 74 come primo titolo in concorso. Quadri fissi, sintetici, istantanee di un microcosmo. La storia è tratta dal romanzo Piccole cose da nulla di Claire Keegan, cento pagine scarse nell’edizione Einaudi. Inizia nel 1985: siamo nei giorni poco prima di Natale in un paesino della contea di Wexford, Irlanda. Bill Furlong (Cillian Murphy), una moglie e cinque figlie, è il titolare di un’azienda di carbone che sta girando col suo furgone per consegnare i rifornimenti necessari a combattere il gelo. Tra i clienti c’è il convento del paese, a cui Bill recapita sacchi di carbone sulle sue stesse spalle, lasciandoli nel cortile. Proprio in quello spazio assiste a una strana scena: una ragazza in preda a una crisi, tra pianti e urla, viene costretta dalla madre ad entrare nel convento. “È solo per il tuo bene”, naturalmente. La vicenda è quella delle Magdalene Laundries: le cosiddette “lavanderie” gestite dalle suore cattoliche, che in realtà erano istituti detentivi per le ragazze considerate immorali, per esempio quelle che restavano incinta. All’interno la vita era durissima, marchiata da torture e punizioni, con le giovani totalmente spersonalizzate, spesso non chiamate per nome e appellate come “child”, bambine, costrette a turni massacranti, mangiare poco e niente, dormire al freddo. Totalmente isolate dall’esterno. Uno scandalo criminale che durò addirittura fino al 1996 con la chiusura dell’ultima “lavanderia Maddalena”.

Ciò che ho descritto però non si vede sullo schermo. Al contrario dell’altro film sul tema, Magdalene di Peter Mullan che fu Leone d’oro a Venezia 2002, qui il fulcro non è politico ma del tutto umano. Il racconto segue infatti la presa di coscienza di Bill, che da quell’immagine primaria – la ragazza che urla – torna indietro in flashback a quando lui stesso era bambino, aprendo un’altalena tra passato e presente, e prova a realizzare ciò che gli è realmente capitato, dunque chi è oggi. Il coperchio meteorologico si fa correlativo oggettivo della storia, come la cappa opprimente che rinchiude le ragazze nel silenzio collettivo. Il film inizia in un kitchen sink drama, cioè ricorda il docudrama britannico anni Sessanta, che veniva detto “dramma del lavello”: personaggi mediamente umili e proletari che affrontano le loro vite mentre servono la cena e lavano i piatti. Così la famiglia di Bill che, mentre si appresta alle festività, viene funestata dalla graduale epifania dell’uomo: il ricordo fa rima col presente finché Bill, durante un’altra consegna, incontra una ragazza tremante nel cortile e la accompagna dentro, facendo ingresso nel convento, violando lo spazio proibito. Per la prima volta “vede”, ossia intravede alcuni dettagli che si vorrebbero occulti. Di conseguenza nasce il problema: fare qualcosa o tacere su queste piccole cose da nulla? Il mondo intorno lo scoraggia, per prima la moglie, d’altronde è una famiglia cattolica e siamo pur sempre a Natale… E poi è troppo potente la chiesa per permettersi davvero di andare contro. Ma il potere, secondo Bill, è solo il potere che gli diamo. E comincia col non rispondere più a messa nelle voci dei fedeli.

La parabola si sviluppa all’insegna di uno svelamento graduale, per cui non serve dire oltre. Basti rilevare che il film – e quindi il libro – è pensato come una malinconica carola natalizia, che include anche Charles Dickens, con David Cooperfield come libro di riferimento; una carol dove il cattivo non è Scrooge ma un umore diffuso, una violenza istituzionale in abito da suora, mascherata dai canti dei bambini e dall’accensione dell’albero di Natale. Il volto del Male assume poi i connotati di Emily Watson, la madre superiora che attraverso la carità esercita la corruzione, e fa più paura della suora di The Nun. Da parte sua il regista Tim Mielants,che viene soprattutto dalla serialità (Legion, Tales from the Loop), gira con piglio dolente e sfodera una maniacale cura dei dettagli: guardate la giacca di pelle screpolata di Bill, che poi passerà a coprire le spalle di una ragazza, e i peli che spuntano in controluce sul collo della suora. Ecco, quella giacca lisa del carbonaio messa a confronto con la peluria clericale già dice chi ha ragione. Complice del risultato è la prova di Cillian Murphy, irlandese di Cork, in grado di reggere con l’accento “giusto” la complessa drammaturgia. Titoli di coda sui rumori naturali: scroscio di torrente, gracchiare di corvi, canti religiosi. A ricordare quanto è difficile spaccare il contesto di provenienza, la religiosità intrinseca anche davanti all’orrore, che può essere spezzato solo dal gesto estremo che Bill compie. Altrimenti restiamo nella nostra paralisi e siamo morti come i dublinesi di Joyce.