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No Sudden Move

REGIA:
Steven Soderbergh
CAST:
Don Cheadle (Curt Goynes)
Benicio del Toro (Ronald Russo)
Ray Liotta (Frank Capelli)

Il nostro giudizio

No Sudden Move è un film del 2021, diretto da Steven Soderbergh.

Esiste, nella cosmogonia hollywoodiana, una Supernova, una scheggia impazzita, un regista che non ha probabilmente eguali e che fa rima solo con sé stesso: parliamo di Steven Soderbergh, un autore prolifico che vanta più di 30 film dal 1989 a oggi (solo giganti come Steven Spielberg e Ridley Scott gli reggono il passo), così sperimentale, trasversale, multiforme, dai risultati altalenanti ma sempre originali, un gigione cinefilo che si nutre di cinema e si diverte a riversarlo in pellicola attraverso una solidissima capacità di intrattenere gli spettatori nei generi più disparati. Non si fa in tempo a parlare di un suo film che subito ne gira un altro, sempre incredibilmente diverso: circa un anno fa avevamo parlato di Panama Papers, e ora il regista di Atlanta torna a stupire con il dramedy Lasciali parlare e soprattutto con No Sudden Move, un intricatissimo incrocio d’antologia fra neo-noir e gangster-movie. Quello di Soderbergh è un cinema che si muove costantemente fra genere e autore, fra cinema commerciale e cinema “alto”, ricco di sperimentazioni linguistiche, e non è la prima volta che il Nostro si getta nel mondo del crimine – dal monumentale, nerissimo e insuperabile Traffic alla divertita trilogia di Ocean, da Out of Sight e L’inglese fino a Knockout. E No Sudden Move – per il quale Soderbergh si affida alla solida sceneggiatura di Ed Solomon, quello dei due Now You See Me – risulta essere una sorta di compendio del crime-movie secondo il regista. Protagonisti della vicenda, ambientata a Detroit nel 1954, sono due delinquenti di mezza tacca, Curt Goynes (Don Cheadle), appena uscito dal carcere, e Ronald Russo (Benicio del Toro): i quali vengono assoldati dal misterioso Doug Jones (Brendan Fraser) per svolgere un lavoro apparentemente semplice e ben pagato, per conto di un altrettanto ignoto mandante. Dovranno tenere in ostaggio la famiglia di un contabile della General Motors, Matt Wertz (David Harbour), mentre Charley, un terzo complice, si reca con lui in ufficio per sottrarre dei preziosi documenti. Sembrerebbe un contratto semplice e senza rischi, ma l’uomo trova la cassaforte vuota e porta delle carte di nessun valore, mentre Charley riceve l’ordine di eliminare la famiglia e i due complici: Curt lo uccide con un colpo di pistola, e insieme a Russo si mette alla ricerca dei mandanti occulti che volevano incastrarli, mentre il poliziotto Joe Finney (Jon Hamm) indaga sull’accaduto.

Con l’aiuto di Wertz, i due complici recuperano i veri documenti – un progetto di una nuova marmitta per automobili – e risalgono ai mandanti, i boss della Mafia Frank Capelli (Ray Liotta) e Aldrick Watkins, che hanno validi motivi per odiare i due delinquenti e hanno messo una taglia sulla loro testa. I due gangster, a loro volta, agivano per conto di alcuni industriali che avevano interesse ad acquistare o tenere segreti i documenti: Curt e Ronald cercano allora di negoziare la vendita della merce e salvare la pelle. Dire di più sulla trama è difficile, non tanto per evitare gli spoiler, ma perché la vicenda è talmente intricata che va vista (anche più di una volta) per essere compresa in toto: la sceneggiatura, trasposta da una regia divertita e in stato di grazia, è certosina e micidiale come un meccanismo a orologeria, e prevede una serie di trame e sotto-trame che si incrociano, in una molteplicità di protagonisti e comprimari che è tipica dei film più corali di Soderbergh (vedasi Traffic e la trilogia di Ocean). Il regista è sempre stato un ardito sperimentatore del linguaggio cinematografico: basti pensare al B/N con inserti a colori del suo secondo film, il thriller kafkiano Delitti e segreti, o al fuori sinc de L’inglese, oppure ancora alla fotografia virata in ocra e in bluette di Traffic (con la narrazione di tre vicende parallele che si incrociano); così come troviamo utilizzi innovativi del montaggio, spesso curato da lui stesso (insieme alla fotografia) con vari pseudonimi, o trovate narrative anticonformiste come in Panama Papers, dove i protagonisti parlano allo spettatore. No Sudden Move non fa eccezione in tal senso, poiché fin dalle prime scene e per tutto il film, mentre sentiamo le percussioni in accompagnamento di David Holmes, ci rendiamo conto di vedere un film che omaggia e riprende esplicitamente uno stile vintage, con un curioso gioco meta-cinematografico per cui un formidabile esempio di noir contemporaneo utilizza un’immagine che ricorda i vecchi film anni Cinquanta – perché la definizione di neo-noir non riguarda infatti l’ambientazione diegetica, ma la riformulazione dei canoni del noir nel cinema moderno. La fotografia, curata dallo stesso Soderbergh con il consueto pseudonimo di Peter Andrews, utilizza una grana dell’immagine e una tonalità del colore particolarmente satura che conferiscono al film un gusto inequivocabilmente retrò (come si nota anche dai caratteri dei titoli di testa, molto old style).

Così come balza subito all’occhio l’utilizzo di lenti anamorfiche, deformanti, una sorta di grandangolo che deforma volutamente la prospettiva. Si tratta di uno stile creativo che può essere accusato (a torto) di essere fine a sé stesso: “a torto”, perché la cifra stilistica di No Sudden Move fa parte di un gioco citazionista di Soderbergh, il quale mette in centrifuga gli elementi cardine del crime-movie e del gangster-movie per creare un’opera accattivante che strizza l’occhio allo spettatore, azzeccata e girata con tutti i crismi del genere. Un film dove il Nostro gigioneggia a suo piacimento, ma non nell’accezione pulp di Tarantino (l’azione e il sangue sono ridotti al minimo), sebbene non manchi una certa ironia in alcuni passaggi: è come se Soderbergh avesse voluto realizzare una sorta di compendio fra il gangster-movie più cupo e nichilista di Traffic e l’heist-movie divertente di Ocean, con una netta prevalenza del primo. Muovendosi sullo sfondo di una Detroit anni Cinquanta dove convivono bianchi e neri – ben ricostruita nelle scenografie e nelle auto d’epoca – agitata dagli scontri razziali e con elementi ripresi dalla realtà (vedasi la chiosa finale sulla General Motors), Soderbergh mette in scena un crime ricco di tensione, doppi giochi e colpi di scena, con una marea di personaggi che entrano in scena man mano per delineare un puzzle complicatissimo. Ci sono tutti gli elementi seminali del noir: i delinquenti da strada (gli impareggiabili Don Cheadle e Benicio del Toro, che tornano a recitare insieme dopo Traffic), i boss mafiosi (un attempato ma efficace Ray Liotta e Bill Duke), la femme fatale (Julia Fox) moglie del gangster Capelli e amante di Ronald, i dirigenti industriali che hanno intrallazzi con la malavita, il poliziotto corrotto, e via dicendo. Non mancano esecuzioni a sangue freddo e una breve sparatoria in un ristorante, ma Soderbergh vuole costruire No Sudden Move – “nessuna mossa improvvisa”, come devono fare i protagonisti – più sulla trama che sul facile effetto spettacolare, e ci riesce magnificamente. Da segnalare un cameo non accreditato di Matt Damon, nei panni di un industriale corrotto, e il montaggio dello stesso Soderbergh con l’abituale pseudonimo di Mary Ann Bernard.