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Panama Papers

2019
Titolo Originale:
The Laundromat
REGIA:
Steven Soderbergh
CAST:
Meryl Streep (Ellen Martin)
Gary Oldman (Jurgen Mossack)
Antonio Banderas (Ramon Fonseca)

Il nostro giudizio

Panama Papers è un film del 2019, diretto da Steven Soderbergh.

Pochi registi, oggi, sono versatili e imprevedibili come Steven Soderbergh: un autore in grado di passare – nel corso di una lunga carriera – da grandi successi quali Traffic e la trilogia di Ocean ai due biopic su Che Guevara, da film d’autore come il kafkiano Delitti e segreti e il collettivo Eros fino a raffinati noir e thriller. Soderbergh è uno che sa come fare cinema e come intrattenere gli spettatori, mettendo in scena uno spettacolo sempre diverso ma di eguale impatto. Ne fornisce un’ulteriore prova con quell’oggetto alieno che è Panama Papers (The Laundromat): un film divertente e divertito, nonostante il tema scottante, diretto in modo brillante da una regia che gigioneggia come al solito, e anche di più. Basato sul libro Secrecy World di Jake Bernstein sul celeberrimo scandalo finanziario – ci arriviamo fra poco – è sceneggiato da quello Scott Z. Burns che avevamo elogiato per la regia dell’eccellente The Report, fedele collaboratore di Soderbergh e con una propensione per le storie di intrighi e cospirazioni. Qua ci troviamo però in un film completamente diverso dai vari The Post e Tutti gli uomini del Presidente: siamo in un territorio ibrido, compreso fra la narrazione scorsesiana di The Wolf of Wall Street, la brillantezza e l’ironia di Tarantino, il filone dei film sulle grandi truffe e sul mondo della finanza (da Wall Street a La grande scommessa), il tutto narrato in modo bizzarro e ludico, ma anche con momenti semi-documentaristici.

La vicenda prende le mosse da una vedova, Ellen Martin (Meryl Streep), che indaga su due fronti: una frode assicurativa riguardo all’incidente in cui è morto il marito, e una misteriosa società russa che ha acquistato un lussuoso appartamento. Muovendosi nel mondo dell’alta finanza, giunge a uno studio legale di Panama gestito dai soci Jurgen Mossack (Gary Oldman) e Ramon Fonseca (Antonio Banderas). Scoprirà che il suo caso è solo una parte infinitesimale tra milioni di file su società offshore di tutto il mondo che coinvolgono personaggi insospettabili. I fatti storici, in soldoni, sono questi. Panama Papers è il nome di un dossier creato dallo studio legale panamense Mossack Fonseca e contenente 11,5 milioni di documenti confidenziali: reso pubblico nel 2016, riguarda innumerevoli società offshore gestite dal suddetto studio, e impegnate in una gigantesca evasione fiscale e riciclaggio di denaro (il Laundromat del titolo originale) da parte di finanzieri e uomini politici. Soderbergh si distacca dal classico film d’inchiesta all’americana, non racconta cioè le indagini svolte dai giornalisti, ma narra la storia con ironia, alterna i punti di vista narrativi e mescola continuamente vicende reali e fittizie. La trama prende il via dal personaggio istrionico e fittizio di Meryl Streep, ma fin dalla prima sequenza ci rendiamo conto di assistere a qualcosa di completamente diverso: Oldman e Banderas, in smoking, rompono l’illusione scenica e si rivolgono direttamente allo spettatore per spiegare a grandi linee il funzionamento dell’economia e la “vita segreta del denaro”.

Questo sarà un topos ricorrente nel film, tanto che i due attori – anzi, mattatori, un Oldman molto british e un Banderas che dimostra di non essere solo relegato alla pubblicità – compaiono forse più in veste di narratori esterni che non come protagonisti interni alla storia, sfociando anche nel meta-cinema: Soderbergh racconta fatti storici ma senza prendersi troppo sul serio, incrociando le storie di numerosi personaggi, reali o immaginari. Una vicenda abbastanza caotica ma narrata in modo fluente e suddivisa in capitoli (ciascuno dei quali è denominato “segreto”): sostanzialmente è un film formato da episodi che sono collegati da un filo conduttore piuttosto esile – l’indagine della vedova e i due narratori. La narrazione e lo stile di Panama Papers sono estremamente variegati, persino opposti in certi momenti, in piena sintonia con la filmografia di Soderbergh: si passa da uno sguardo quasi documentaristico, ricco di tecnicismi che possono rendere ardua la visione, a momenti da thriller finanziario in stile Wall Street, dalla commedia nera a scene cruente, scivolando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. Vediamo ad esempio un finanziere bigamo (Jeffrey Writght, il Felix Leiter dei primi due 007 con Daniel Craig), un altro industriale che vuole intestare alla figlia la propria società pur di comprarne il silenzio sulla sua infedeltà, la Streep che irrompe in ufficio sparando con un fucile (ma è solo un sogno): e accanto a queste situazioni bizzarre, convivono narcos, trafficanti di organi (con dettagli horror sugli espianti) e un uomo d’affari (Matthias Schoenaerts) che muore avvelenato dai cinesi che stava per fregare. Tutto convive armoniosamente in quello che è, fondamentalmente, un grande divertissement, guidato da una regia che gode del proprio istrionismo e fa divertire lo spettatore.