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Lo chiamavano Trinità

1970
Titolo Originale:
Lo chiamavano Trinità...
REGIA:
E.B.Clucher (Enzo Barboni)
CAST:
Terence Hill (Trinità)
Bud Spencer (Bambino)
Farley Granger (Maggiore Harriman)

Il nostro giudizio

Lo chiamavano Trinità… avrebbe avuto la grave responsabilità di far finire in western serio dentro una spirale di comicità e di grottesco che avrebbe seppellito il genere nella sua accezione più nobile.

A proposito di Lo chiamavano Trinità era questo il pregiudizio, noto, dei grandi westerner come Sergio Leone e Sergio Corbucci: l’avere avviato lo slittamento/declassamento nella farsa. Ma perché, dal Sartana di Parolini in poi cos’altro era venuto avanti nello spaghetti se non la vena grottesca e surreale commaculata di comicità? Che quello fosse ormai l’obiettivo verso cui i film sarebbero scivolati, si era capito da un pezzo. Solo che ora i miliardi di incasso avevano dato l’imprimatur ufficiale alla faccenda. Lo chiamavano Trinità comincia, con un bellissimo panoramico, su quella lunga digressione di Terence Hill trasportato dal cavallo sul travoy, che ci prende subito e si incuriosisce, le orecchie blandite dalla musica di Franco Micalizzi che è anch’essa una bella novità, un ingresso familiare ma nello stesso tempo diverso dentro a un western. Poi arriva la presentazione trofica del personaggio, a confronto con la padella di baked beans – non credete alle ricette che si leggono in rete sedicenti mimetiche della pietanza che si vede nel film: se davvero volete provare il brivido del fagiolo trinitario, acquistate i baked beans in salsa di pomodoro della Brooks, a meno di un euro – che è il primo grande segno distintivo di questo nuovo western, il succulento particolare che darà il nome al tutto: fagioli-western. Bene, quella padellona divorata, asciugata e pucciata con il tozzo di pane da Terence è il dato essenziale, culinario della novità. Finito il pasto, Trinità – la mano destra di Dio – può finalmente dedicarsi alle faccende più prosaicamente western come estinguere i due tipacci che hanno cacciato un povero messicano. L’ordine delle cose è quindi essenziale e stabilisce fin dall’inizio del film la scala di valori che da ora in avanti verrà seguita. Trinità è fratello di Bambino, un ladro di cavalli che temporaneamente ricopre, usurpandolo, il ruolo di sceriffo in una cittadina dove spadroneggiano Farley Granger di Senso e i suoi bravacci, il fior fiore degli stuntman più preziosi e truci del periodo – da Riccardo Pizzuti a Gilberto Galimberti. Bud Spencer – la mano sinistra di Dio – viene sparato in scena da uno zoom ma non ha l’enfasi, il pathos con cui veniva presentato Terence.  Eppure Bambino ha un potere impressionante di riempimento e di spinta, nel film, e non è solo una questione di stazza, di tonnellaggio, di spazio scenico occupato. Bud, come appare, trasforma Trinità in una storia che viene raccontata, mentre prima tutto l’inizio era una sorta di happening, di esibizione che esauriva il proprio significato nella pittoresca fenomenologia di Terence.

È un dato su cui insistere, riflettere. Tra Terence e Bud, chi è esattamente l’augusto e chi il clown bianco? Qui è senza dubbio Terence il sacro sciocco, colui che porta lo scompiglio e lo scandalo e che è in grado di compiere le cose prodigiose, lo straccione, l’augusto, il toni. Mentre Bud si direbbe che pesca nello stesso fondo del clown bianco, è la mamma rispetto al bambino (anche se il suo nome è proprio Bambino come per un gioco antifrastico), cioè a Terence, è la maestra rispetto all’alunno discolo. Ma nello stesso tempo Bud ha le caratteristiche, già in Lo chiamavano Trinità…, dello sciocco, del mamo: quando Terence gli spiega e gli racconta i piani che ha in testa per fregare gli avversari e li fa passare come se fossero letture del pensiero di Bud, i ruoli sono già rovesciati, le acque tendono già a confondersi, come accadrà in diversi film successivi. Comunque, il pubblico capiva di trovarsi di fronte a qualcosa di differente nel momento in cui iniziavano le bagarre, quando Terence comincia le sue prestidigitazioni con la pistola. E lì tanto è l’abilità di Hill a trasformare un repertorio che nel western surreale, tipo Sartana, si era già visto – quelle che Fellini chiamava le “parolinate”, da Parolini, tipo sparare senza guardare eccetera – in una esibizione nuova e irresistibile. Antonio Monselesan, il caratterista che in Trinità fa il bounty killer e nel seguito Wild Cat Hendricks, si domandava come fosse possibile che quelle stesse cose che si vedevano nei Sartana o nei Tresette non avessero avuto lo stesso successo che poi ebbero nel film di Enzo Barboni. Un quesito che fa torto allo spirito, perché là non c’erano Terence & Bud. Perché, alla fin, bisogna ben dare alla coppia ciò che le spetta. Nel saloon si vede anche una scena in cui Trinità spara dal basso colpendo un tizio su una balaustra tra le palle. E in una scazzottata si rileva un pugno in macchina. Sono cose che attengono alla struttura, alla tessitura acrobatica del film, cioè all’organizzazione dell’azione che era di pertinenza del comparto stunt, guidato da Giorgio Ubaldi, accreditato non solo come maestro d’armi ma anche come aiuto regista. Non è un’ovvietà dire che il 50, 60% di Trinità lo hanno fatto i cascatori, promossi al ruolo di comprimari e che quelle particolari tecniche che vediamo nel film poi si sono diffuse ed espanse al resto del cinema italiano: il pugno in macchina con cui Moschin sfascia la faccia di Barbara Bouchet in Milano calibro 9 (inventato da Galimberti in Django e rifatto nel film di Barboni); o il colpo da sotto tra i coglioni che diventerà un marchio di fabbrica dell’action di Enzo Castellari. Il fatto di comparire in una pellicola che fece i miliardi, mise in forte rilievo queste tecniche, le rese note e fonte di ispirazione per altri. Trinità è come un sasso gettato nello stagno che allarga infiniti cerchi concentrici e non è solo il manifesto del nuovo western comicarolo.

Poi, parliamoci chiaro, ci sono anche le cose che non funzionano: Lo chiamavano Trinità…non è solo rose e fiori. Tutta la parte in cui si introduce il tema dei Mormoni, quando Granger va a parlarci per la prima volta, per intimidirli, minacciarli, spaventarli, giustifica ampiamente il fatto che nelle edizioni italiane in digitale del film sia stata tagliata. Fortuna che subito dopo entra in scena Remo Capitani Mezcal con i suoi messicani (tra i quali spiccano Alberto Dell’Acqua e Omero Capanna) e l’interesse torna desto. Si capisce anche poco il perché vengano fatti entrare Luciano Rossi e Ezio Marano (il “Timido” e “Faina”) per dare man forte ai Bud & Terence quando si tratta di allenare i Mormoni a combattere e nella mega-bagarre della fine, dove nasce la scena feticcio del mischione, stile rugby, dei cattivi accalcati addosso a Bud che se ne libera facendoli volare via tutti insieme, come un fiore che improvvisamente si apre. Ancora prima nel film, veniva messo a punto il cosiddetto “piccione” o un suo antecedente diretto: si tratta del pugno che tipicamente Bud sferra a martello sulla testa di qualcuno che fa un lieve rinculo prima di crollare a terra o di allontanarsi con la testa incassata tra le spalle, camminando, appunto, come un piccione.