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Kimi

2022
REGIA:
Steven Soderbergh
CAST:
Zoë Kravitz (Angela Childs)
Betsy Brantley (voce di Kimi)
Rita Wilson (Natalie Chowdhury)

Il nostro giudizio

Kimi è un file del 2022, diretto da Steven Soderbergh.

Per approcciarsi ad un film come Kimi occorre tenere occhi e orecchie ben aperti. È proprio lungo questi due canali sensoriali che Steven Soderbergh ha scelto, infatti, di muovere questo suo claustrofobico – anzi, agorafobico – thriller quasi interamente domestico, nel quale ciò che vediamo, ma soprattutto che sentiamo, non è mai come realmente appare. Ed è proprio attraverso uno sguardo nervoso e rabbuiato che dà oltre la sua personalissima Finestra sul cortile che la giovane Angela (Zoë Kravitz) osserva un brulicante mondo esterno (ed estraneo) preclusole non tanto dagli strascichi del pandemico lockdown, quanto piuttosto dalle purulente ferite di un trauma ancora fresco e dolorante. Non un trauma fisico, come quello del fu paraplegico James Stewart di hitchcockiana memoria, ma piuttosto psicologico, capace di rendere la scontrosa protagonista schiava delle spaziose e minimali quattro mura di un luminoso loft in pieno centro di Siattle. E mentre la turbolenta vita post Covid prosegue frenetica qualche piano più in basso, l’ossessivo-compulsiva routine da smart working obbligato della nostra misantropa geek girl – perennemente sull’orlo del baratro, così come la profetica lattina di energy drink lasciata pericolosamente in bilico a bordo cucina – ruota attorno ad un unico e apparentemente semplice scopo: migliorare l’algoritmo di risposta di un rivoluzionario assistente vocale, sviluppato dalla tutt’altro che limpida Amigdala Corporation, attraverso l’ascolto degli input vocali di anonimi (ma forse non tanto) utenti sparsi per gli States. Ma ecco che, fra una svogliata sessione di psicoterapia via Zoom e qualche fredda avventura sessuale in sbrigativa compagnia del vicino di caseggiato Terry (Byron Bowes), la povera Angela si troverà, così come l’altrettanto asociale Gene Hackman della coppoliana Conversazione e il pallido John Travolta del Blow Out depalmiano, ad ascoltare ciò che non avrebbe mai dovuto essere udito da anima viva. L’apparentemente inequivocabile prova sonora di una terribile aggressione domestica – registrata, forse, tutt’altro che casualmente – inizierà così a pulsare nelle orecchie e nella mente della nostra complessata eroina dal turchino caschetto, esattamente come il fastidioso ascesso dentale che pare tormentarla senza tregua fin dalle primissime battute, obbligandola ad affrontare a grugno duro le proprie agorafobiche paure e trascinandola, così come la iperattiva e videoludica Lola corre di rosso crinita,  in una letterale corsa contro lo spazio e il tempo per sbrogliare il bandolo di una tutt’altro che intricata matassa.

È l’essenza ultra concertata del più lucido, snello e graffiante Soderbergh quella che si irradia sottopelle a questo teso e incalzante Kimi: un avvincente tecno-noir che, lasciata da parte l’arzigogolata e fumosa zavorra classicheggiante di No Sudden Move, sceglie stavolta di asciugare ogni stucchevole fronzolo o superfluo orpello per andare dritto dritto all’osso della filmica questione, facendo tesoro dell’ottima lezione di economia produttiva (e soprattutto narrativa) già testata con quel piccolo ansiogeno gioiellino di Unsane e dando brillante forma all’ottima sceneggiatura ad orologeria firmata da un redivivo e decisamente ispirato David Koepp. Un’asciutta, tesissima e fluida oretta e venti che, a dirla tutta, appare tra le migliori creature partorite dall’eclettico cineasta di Atlanta nel corso degli ultimi prolifici anni, capace di impiegare una manciata di ambienti e ancor meno personaggi per dar vita a un piccolo solidissimo racconto dall’incedere smaccatamente hitchcockiano nel quale non l’occhio ma l’orecchio pretende finalmente la propria parte. Nonostante, infatti, quell’ingannevole e articolata panoramica esplorativa iniziale che pare richiamare a gran voce il landescape urbano dell’incipit di Psycho, è un universo in primis sonoro quello che la traumatizzata Angela si trova a sperimentare fin dal primissimo ciack di Kimi, divenendo testimone occulta e silenziosa, così come il subliminale origliatole de Le vite degli altri di von Donnesmarck, delle spontanee e spesso curiose interazioni private uomo-macchina il cui campionamento, nasconde, forse, intenzioni ben più oscure di quelle di un semplice upgrade. Ed è appunto scavando in profondità attraverso i differenti strati acustici – ripulendo e asciugando così come compiuto dallo stesso Soderbergh attraverso la propria regia e l’interessantissimo lavoro di sound design ad opera di Larry Blake – che la nostra isolata Miss Robot, abituata ormai per necessità e virtù a interfacciarsi col mondo esterno e i suoi pochi effimeri affetti attraverso le fredde e multiple Finestre(lle) digitali sul cortile di computer e smartphone, si scontrerà in pieno viso – anzi, in pieno orecchio – con l’unico imprevisto capace di incrinare e sconvolgere la sua preordinata routine.

E se, fintanto che l’equilibrio psico-fisico sembra rimanere precariamente in bilico all’interno del familiare perimetro della spaziosa abitazione-prigione, la macchina da presa continua a seguire prospettive misurate e geometriche, l’incontro-scontro obbligato con il caotico e insidioso mondo esterno – ben sottolineato dal pulsante score di Cliff Martinez – non può che far inevitabilmente deragliare lo stile della stessa messa in scena, adottando inquadrature sghembe, sature e nervosamente velocizzate che ben restituiscono il senso di spaesamento e vulnerabilità sperimentato sulla propria pallida pellaccia da questa involontaria ma determinata detective in erba. Un film che vive di affascinanti apparenze questo Kimi, laddove tutto, dalla regia all’atteggiamento spesso contradditorio della violata ma non violenta protagonista – passando ovviamente anche per lo stuzzicante segreto che sta al centro della concitata detection – si rivelano ben più complessi e stratificati di quanto non appaiano. Scavando, campionando e ripulendo, anche spettatore sarà in grado di filtrare attraverso la nebbia di queste apparenze rendendosi conto di quanto un’opera del genere, per quanto semplice e canonica possa sembrare, riservi in realtà ben più che qualche sporadica e ruffiana sorpresa all’interno del bulimico e spesso fastidioso rumore di fondo del cinema contemporaneo.