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Color Out of Space

2019
REGIA:
Richard Stanley
CAST:
Nicolas Cage (Nathan Gardner)
Joely Richardson (Theresa)
Gardner Madeleine Arthur (Lavinia Gardner)

Il nostro giudizio

Color Out of Space è un film del 2019 diretto da Richard Stanley.

E’ facile dimenticare l’apporto dato dal cinema di Richard Stanley a quella corrente più o meno ibrida che solo sommariamente si potrebbe definire il cyberpunk cinematografico degli anni ’90. I suoi unici due lavori, girati da giovanissimo dopo una carriera lampo come autore di videoclip, difficilmente fanno capolino nelle top del periodo. Derivativi, grezzi, legati ad un’estetica da primo Mtv forse invecchiata peggio di altre; ma l’aura cult di Hardware (1990) e Demoniaca (1992) è enorme, oggi come ieri. La morte artistica decretata dalla follia di L’Isola Del Dr Moreau (da cui fu allontanato dopo una settimana di riprese, marchiato -forse non del tutto a torto- come matto) appariva fino a pochi mesi fa come l’ennesimo epilogo amaro di un giovane artista stritolato precocemente da un’industria ingrata. Era rimasto lì, Stanley, feticcio per pochi in un’epoca gloriosa per la fantascienza. Uno dei tanti registi cult con un classico e mezzo in curriculum, e una vita di misteri. Color Out of Space, prodotto in cinque anni dopo due decenni trascorsi tra cortometraggi, documentari dedicati all’occulto (interessantissimi) e comparsate in festival indipendenti, ha infine riportato il sudafricano dietro la macchina da presa. Budget dignitosissimo, Nicolas Cage protagonista e un progetto del cuore come l’adattamento di H.P. Lovecraft. Era giusto aspettarsi il de profundis di una ex promessa bruciata, mentalmente e stilisticamente allontanata dal cinema per troppo tempo. Invece il ritorno di Stanley è fresco, moderno, e pronto al 100% per rilanciarne alla grande la seconda parte di carriera di questo Leos Carax neofolk.

Quanto c’è di Hardware in Color Out of Space? A sorpresa, poco o nulla. Molto più preponderante è invece lo spettro dello scrittore di Providence, della cui poetica il film è praticamente un bignami. L’infilmabile Lovecraft è presentissimo nel cinema di questi anni; se la voglia di mostri tentacolari è ai minimi storici, il terrore innominabile delle grandi forze invisibili è in un certo senso la vera paura dell’era antropocenica, assediata da incubi di catastrofi e distopie appena al di là del concepibile. Non a caso, più che ai miti di Cthulhu, l’interesse del New Weird letterario e dell’horror cinematografico va verso il Lovecraft del mistero, dell’impossibile e della mutazione. Chiuso il decennio dei fantasmi, potrebbe aprirsi quello degli Antichi. Ce lo auguriamo. La messa in scena è la grande meraviglia di questo Color Out of Space. Il film parte lentamente, come tanti horror di famiglie in casette di campagna; immerse in una quotidianità posticcia, il surreale sembra premere contro le finestre scure affacciate su un bosco mitico e inconoscibile. Nicolas Cage, in un’interpretazione di follia trattenuta a stento e infine liberata come un’eruzione, è il pater familias in scia a Jack Torrence: ritiratosi con moglie e tre figli a vivere in una fattoria in mezzo al nulla, gioisce del contatto con la natura e alleva amorevole preziosissimi alpaca. Il microcosmo familiare è tracciato a matita, funzionale: la ragazza adolescente è goth e ribelle, il bambino gioca con il cane, il figlio grande è mezzo scemo e la moglie vorrebbe tornare in città. L’arrivo del “colore” del titolo, un’emanazione quasi impercettibile scatenata da un meteorite piovuto in giardino, darà un nuovo ritmo alla monotonia. Dapprima isolando la zona, poi impestando acqua e terreno, infine avviando un processo di mutazione genetica in grado di abbattere le barriere biologiche tra creature viventi. Come l’Annientamento di Garlad e VanderMeer, ma diretto da qualcuno con in testa più Cronenberg e meno pretenziosità pseudo-tarkovskiana.

Il Color out of Space (un viola-fucsia brillante) si prende il suo tempo. Il budget è basso, e Stanley sa di non poter giocare subito le carte migliori degli enormi reparti trucco e effetti visivi. Il film concede il giusto spazio alla costruzione delle beghe familiari, lasciando che il caos strisciante prenda piede con calma, per poi togliere il guinzaglio a Cage e mollare definitivamente gli ormeggi. Quando lo fa, ci si ricorda la bellezze di un biopunk di altri tempi, con almeno un paio di creature in grado di ricordare il miglior Brian Yuzna. Yuzna che, nel 1993, realizzò uno dei migliori adattamenti dell’opera lovecraftiana con l’indimenticabile episodio The Whisperer in Darkness del bellissimo Necronomicon antologico. Tutto torna. Color Out of Space non darà il massimo sul piano tematico, ma la resa dell’orrore fisico e morale dell’aberrazione mangia tranquillamente in testa alla maggior parte dei prodotti mainstream analoghi. E’ la gioia dell’immaginare, del costruire, del mostrare anziché nascondere; un approccio al genere, quello si, estremamente primi ’90, teletrasportato nell’era Netflix. Inutile dire che si tratti di un film da sostenere, a priori e per forza. Dopo due decenni ad evocare demoni e alieni, Stanley ha infatti riscoperto la voglia di cinema: una nuova trilogia lovecraftiana sarebbe già avviata, con L’Orrore di Dunwich ideale secondo capitolo. Crediamoci.