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Cane che abbaia non morde

2000
Titolo Originale:
Peullandaseu-ui gae
REGIA:
Bong Joon-ho
CAST:
Lee Sung-jae (Ko Yun-ju)
Bae Doo-na (Park Hyun-nam)
Kim Ho-jung (Eun-sil)

Il nostro giudizio

Cane che abbaia non morde è un film del 2000, diretto da Bong Joon-ho.

La mossa è quella del gambero: prendete un regista che si è appena affermato, imposto a livello planetario e camminate all’indietro fino ad arrivare all’esordio, l’opera prima, il vagito nella culla. È il caso di Bong Joon-ho, che si trova attualmente tra la gloria globale di Parasite e il prossimo film di fantascienza Mickey 17 in uscita nel 2024. Inevitabile allora andare a cercare il debutto e portarlo in sala, dove non era mai stato in Italia, blindato dalla tagline “dal regista premio Oscar”, come fanno i distributori P.F.A. Films e Emme Cinematografica. Cane che abbaia non morde (Barking Dogs Never Bite) è l’esordio del 2000 del coreano, appena trentunenne quando scrive e dirige il primo tassello del suo cinema. Va detto subito: il film non sfiora le altezze olimpiche dei titoli futuri, ma già contiene le qualità che porteranno Bong su palchi importanti. Una serie di ossessioni e fissazioni, un talento visivo per la costruzione dell’immagine, una sceneggiatura di ferro battuto che si traduce in potente critica alla società sudcoreana.

Il protagonista è Yoon-ju, giovane assistente universitario che non riesce a farsi assumere perché l’ateneo è dominato da nepotismo e corruzione (“E se dò una mazzetta anch’io?”, si chiede a un certo punto). Nella frustrazione generale all’inizio pensa di individuare la principale causa dell’insuccesso: i cani che abbaiano tutto il giorno nel suo condominio, impedendo anche di pensare. Appena trova una bestia nel pianerottolo la rapisce con l’obiettivo di farla sparire. Intorno a questo possibile squilibrato si sviluppano le vicende del palazzo, con la coralità dei suoi personaggi. Hyun-man, la segretaria dell’amministratore, si intenerisce quando una bambina le racconta la scomparsa del cane e inizia con lei la ricerca, con tanto di volantini “missing” e foto dell’animale. Nel frattempo c’è un’anziana signora che porta a spasso un cagnolino di razza, troppo ricco e pettinato per essere tollerabile nella crisi economica permanente dei condomini: anche lui verrà fatto sparire… Solo che stavolta il colpevole lascia dei testimoni, perché mentre agita la vittima nel vuoto prima di lasciarla cadere viene visto dal tetto vicino, proprio da Hyun-man e una sua amica. Come se non bastasse, la donna di Yoo-ju all’improvviso si presenta a casa con un cane di piccola taglia che ha deciso di adottare, la situazione inizia decisamente a incartarsi.

Bong all’esordio convoca alcuni archetipi: il condominio ballardiano, quel microcosmo osservato alla lente che brulica di figure stralunate, deformate o grottesche; il gusto per il racconto che si traduce in puro piacere dell’affabulazioine, come dimostra la lunga storia della leggenda metropolitana esposta nelle cantine; il personaggio dell’uccisore di cani che, come insegna la dottrina di John Douglas, primo profiler dei serial killer, potrebbe essere uno psicotico in erba perché si inizia sempre dall’ammazzare piccoli animali. E poi, come detto, c’è la società coreana che già vent’anni fa è molto lontana dall’immagine idilliaca che vuole trasmettere, o che vorrebbe silenziare non parlandone. Se l’ambiente universitario del protagonista è di base corrotto, come metonimia del mondo del lavoro che stronca ogni merito, d’altra parte anche il palazzo è un condensato del divario di classe, e qui sta la vera anticipazione di Parasite. La divisione radicale tra ricchi e poveri, tra piani alti e bassi, con un essere che vive sottoterra tra cunicoli e tubi, suona oggi da presagio per il film che vincerà l’Oscar. Così come l’indagine fatta in casa per scoprire il responsabile è il neonato della vasta detection impossibile di Memories of Murder, per molti il capolavoro del regista. D’altronde è normale che, come spesso avviene, un trentenne ponga i semi nel debutto a basso budget per poi farli germogliare in ampie volute nelle opere successive. Giusto così. Cane che abbaia non morde è quindi una commedia grottesca, con punte nel thriller e nell’horror, a dimostrazione che il cinema di Bong nella sua giovane mente era già un melange, un’unione di generi tutti mediamente scuri e crepuscolari. Ci sono dei limiti, delle prolissità, ma c’è già il senso del ritmo. E si può ammirare la regia, che tiene mirabilmente tutto insieme con varie sequenze significative, ne segnaliamo due: l’inizio con la cattura del cane, in cui Bong si lancia perfino in una soggettiva traballante dell’animale che cerca di scappare; l’inseguimento chiave dell’intreccio, una donna che rincorre un uomo, e lo riconoscerà infine per lo sguardo di spalle e il suo modo di correre, ovvero attraverso l’immagine, in una soluzione quasi antonioniana. Un film da vedere non solo per il fandom del regista o “per vederli tutti”, ma anche per la tenuta narrativa, l’invenzione visiva, il divertimento diffuso.