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Bussano alla porta

2023
Titolo Originale:
Knock at the Cabin
REGIA:
M.N. Shyamalan
CAST:
Dave Bautista (Leonard)
Jonathan Groff (Eric)
Ben Aldridge (Andrew)

Il nostro giudizio

Bussano alla porta è un film del 2023 diretto da M.N. Shyamalan.

Se, com’è ormai noto, il postino suona sempre due volte, M.N. Shyamalan è uno che, nel bene e nel male, non si è mai fatto alcun problema nello sfondare direttamente la porta principale, senza mai chiedere niente a nessuno. Un autore con la A, la U e le restanti lettere maiuscole che, nonostante una carriera tanto fulminante quanto accidentata, così come l’evangelico Lazzaro è cinematograficamente morto e risorto almeno una volta, trovandosi ormai da qualche tempo a vivere un proprio folgorante e interessantissimo Rinascimento che, da quel piccolo inquietante ritorno alla vita che fu The Visit, cascasse il mondo pare oggi più che mai avviato verso nuovi inaspettati e promettenti orizzonti. E, ironia della sorte, stavolta parrebbe proprio che il mondo sia destinato a cascare per davvero. Almeno questo è ciò che sostengono i quattro misteriosi e inquietanti stranieri che, come titolo comanda, Bussano alla porta dell’isolata baita in mezzo al bosco dove la piccola Wen (Kristen Cui) e sui due padri Eric (Jonathan Groff) ed Endriew (Ben Aldrige) hanno deciso di passare quello che, di lì a poco, si rivelerà un tutt’altro che tranquillo weekend di paura. Chi sono questi indecifrabili intrusi che, nelle sembianze del Gigante Buono Leonard (uno straordinario Dave Bautista), dello sciroccato Reimond (un Rupert Grint un po’ troppo sacrificato), dell’amorevole Sabrina (Nikki Amuka-Bird) e dell’irrequieta Adriane (Abby Quinn), giungono dal nulla armati e con modi incoerentemente premurosi a sconvolgere la tranquilla armonia familiare come nel più classico degli home invasion? Forse nulla più che un manipolo di pericolosi esaltati che, così come la cricca mascherata dell’ansiogeno The Strangers, dopo aver sequestrato le indifese cavie umane di turno, si preparano a sollazzare i propri torturatori appetiti con il sadico giocherello del gatto col topo. Oppure, volendo sospendere per un secondo la proverbiale incredulità, i nostri esaltanti amichetti dal fare gentile ma risoluto potrebbero essere ciò che implausibilmente ma realmente paiono: i quattro Cavalieri dell’Apocalisse venuti ad annunciare nientemeno che il sacro Armageddon, il quale potrà essere evitato solo a patto che uno dei membri della famiglia prescelta venga sacrificato per mano degli altri due.

Come se non bastasse, ad ogni rifiuto da parte dei nostri poveri agnellini, i folli catastrofisti dovranno truculentemente iniziare a immolarsi a vicenda, scatenando sull’intera Umanità terribili e letali piaghe dall’anatemico retrogusto veterotestamentario. È dunque un tesissimo e perturbante dramma da camera – anzi, da baita – quello che lo scaltro Shyamalan ha scelto di imbastire con questo suo allegorico (ma forse nemmeno poi così tanto) Bussano alla porta, riproponendo nuovamente il tema a lui ormai caro dell’enclave familiare minacciata da indecifrabili forze esterne che, diversamente dalle terroristiche entità extraterrestri in odor di 11 settembre di Sings o le mostruose Creature Innominabili in agguato nell’oscura boscaglia di The Village, assumono stavolta nomi e volti ben definiti, non certo eterei come i fantasmi bisognosi di aiuto de Il sesto senso ma piuttosto annunciatori di cataclismatiche profezie che hanno tutta la misteriosa portata dell’altrettanto metaforica e apocalittica pestilenza (sovran)naturale di E venne il giorno. Stavolta, però, contrariamente a ogni possibile pronostico, il Giorno, quello del biblico Giudizio, pare proprio essere giunto, costringendo i nostri protagonisti a compiere un vero e proprio atto di fede così come il Paul Giamatti del fiabesco Lady in the Water, scegliendo se confidare nella sempre viva luce della ragione oppure, per una volta, dinnanzi alle sempre più inquietanti apparenze dar credito ad una Verità ben più grande e inconcepibile di noi. Un film indubbiamente e fortemente polarizzante, così come quella stessa fumosa e indecifrabile religiosità mantenuta volutamente sfocata in sottotraccia, il cui unico limite risiede, forse, solo in un eccesso di didascalismo che incrina un finale a dir poco scioccante e che, a voler essere onesti, costituisce da sempre l’unico vero shyamalaniano tallone d’Achille. Si tratta dunque di un’opera che, per gran parte della sua compatta e tesa ora e quaranta, gioca sapientemente e con sadica intelligenza sul sottilissimo filo dell’ambiguità, seminando parsimoniosamente una fitta serie di dubbi e contraddittori indizi che, così come nell’allucinato End of the Line di Deveraux o nell’egualmente subliminale Believers di Myrick, prima ancora di metterci dinnanzi all’apocalittico fatto compiuto preferiscono spingere i personaggi e lo stesso spettatore a domandarsi a chi si debba regalare la propria fiducia. D’altronde, come ci ricorda il buon Xavier Dolan, in fondo in fondo è solo la fine del mondo…

È dunque uno Shyamalan decisamente sul pezzo e alquanto ispirato quello che regge l’ansiogeno timone di Bussano alla porta, già da qualche tempo desideroso di scrollarsi di dosso l’opprimente fardello obbligato di quel caro vecchio (e forse anche un po’ odiato) plot twist che per anni ha costituito il suo indiscutibile marchio di fabbrica e che ora, con il peso degli anni e della filmica esperienza sul groppone, non appare più la sua principale preoccupazione. Non è dunque un caso che il nostro opti stavolta per una rigorosa e intelligente linearità, certamente la più coerente e cosciente di tutta la sua filmografia, trovandosi per la seconda volta in carriera, dopo lo splendido e geriatrico Old, a maneggiare materia narrativa non più proveniente dal suo fiero e multiforme armamentario, affidandosi stavolta alle ottime pagine del romanzo La casa alla fine del mondo di Paul G. Tremblay per confezionare una nuova personalissima bevanda. Un avvolgente e perturbante elisir che, come nella più ferrea tradizione dell’ormai conclamato Shyamalan touch 3.0 – codificato nelle interessanti esperienze di serialità televisiva di Wayward Pines e Servant e portato infine a maturazione con il supereroismo apocrifo del dittico Split/Glass –, ha già da tempo sostituito la vecchia elegante suspense di matrice hitchcockiana tanto cara ai suoi esordi con una nuova irrequieta e grottesca idea di tensione, giocata quasi interamente su incubotiche geometrie grandangolari, primissimi piani dal chiaro gusto espressionista, un disorientante uso della profondità di campo e movimenti di macchina freddamente composti e calibrati. Uno Shyamalan, insomma, per nulla barocco e consapevolmente asciutto tanto nella penna quanto nel suo sempre ricercato obiettivo, capace di imbastire con compassata cura un coinvolgente e appassionato thriller psicologico dal chiaro impianto teatrale, lasciando volutamente che l’equivoca e indefinita Apocalisse si consumi sullo sfondo di un freddo televisione da trenta pollici scarsi, scegliendo piuttosto di concentrarsi, così come un entomologo armato della sua fida lente d’ingrandimento, sui drammi collettivi e soprattutto personali dei suoi pochi sfaccettati personaggi. Sette piccoli spauriti insetti che, così come le bibliche locuste intrappolate nell’angusto barattalo che domina quella primissima sibillina inquadratura, prigionieri anch’essi del proprio nefasto destino si preparano a compiere un doloroso quanto necessario atto di fede. La stessa identica fede che noi spettatori abbiamo a lungo riversato, anche nei momenti più bui, in un talentuoso regista come M.N. Shyamalan e che stavolta, è proprio il caso di dirlo, pare essere stata decisamente ben riposta.