Maciste, l’altro Ercole

Sull'origine di un nome misterioso
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Il 1913, vero e proprio annus horribilis per Gabriele D’Annunzio, che il Vate aveva sempre scaramanticamente indicato nelle proprie lettere come “1912 + 1”, si aprì con il compimento dell’opera Pisanelle ou le Jeu de la rose et de la mort – naufragata in un memorabile insuccesso il 12 giugno, giorno della prima parigina, cui tennero dietro non più di 10 repliche – e terminò con una seconda disfatta, quella della Chèvrefeuille, andata in scena al Théatre de la Porte Saint Martin il 14 dicembre e fatta segno di pesanti bordate da parte della critica. In mezzo, il Poeta aveva continuato a fare la spola dal suo dorato ritiro di Arcachon alla vita mondana della Capitale e a dilapidare il denaro che, con l’usuale volpina bramosia, riusciva a procurarsi ora da coppa ora da ciglio – l’assillo dei creditori e l’endemica fames auri non avendo cessato di incalzarlo neppure nel suo esilio francese. I biografi di Gabriele riferiscono di incontri da lui avuti in questo giro di mesi con singolari personaggi: il possessore di una scultura di Leonardo, tal Fallani, disposto a scambiare con moneta sonante un’autentica dell’opera e uno scritto di accomnpagnamento di d’Annunzio, nonché individui collegati al cinema, tra i quali un misterioso Fassini e il certamente più noto Giovanni Pastrone, ragioniere consacratosi alla Settima Arte e in essa eternatosi grazie al monumentale Cabiria.

cabiriaAddentrarci nell’intrico della questione se all’altezza di questo primo contatto tra il vate e il regista (che si era detto, dannunzianamente, Piero Fosco) Cabiria fosse già in marcia o se la lavorazione fosse ancora di là dal cominciare, non ci interessa in questa sede. Pastrone veniva a d’Annunzio per chiedergli l’imprimatur del soggetto, un titolo, la revisione delle didascalie e l’invenzione di nuovi nomi per i personaggi del suo film, la cui idea era stata cavata (silentemente) dal romanzo di Emilio Salgari Cartagine in fiamme, edito nel 1908. Il compenso sarebbe ammontato a cinquantamila lire. Il Poeta non esitò punto ad accettare l’offerta e, con la disinvoltura che gli fu sempre propria di fronte alla prospettiva di denari, rescisse il contratto con il quale, due anni prima, si era impegnato a “capolavorare” in esclusiva per la Ambrosio Film di Arturo Ambrosio, dedicandosi all’opera e agli interessi dell’Itala Film, rappresentati dal Pastrone. Rifece le didascalie, ideò il nuovo titolo Cabiria, sostitutivo del provvisorio La vittima eterna, che aveva a sua volta preso il posto di Il romanzo delle fiamme (presente nella stesura originaria) ed elaborò i nomi dei personaggi: segnatamente “l’eroe romano dell’azione”, che da Plinio fu fatto Fulvio Axilla, la nutrice Croessa, la bambina rapita Eunòa, poi, definitivamente, Cabiria, e “il compagno strapotente” di Axilla, “un liberto del paese prode dei Marsi, nomato Maciste“.

CABIRIA

Glossato dallo stesso d’Annunzio come “nata dal fuoco”, il nome della protagonista di Cabiria si riconnette al mito dei Κάβειροι, la cui più antica attestazione letteraria risale a un dramma omonimo di Eschilo – forse di carattere più satirico che tragico – purtroppo pervenutoci in forma frammentaria. Originariamente, i Cabiri (incerta una derivazione etimologica dalla parola semitica kebirim o kebirin significante “i forti”, “i potenti”, per estensione “gli eroi”) erano divinità ctonie pre-elleniche, con sede in Frigia, in Fenicia o tra le genti pelasgiche della Grecia. A misura che il loro culto si diffondeva, esso venne assimilato, o meglio adattato alle religioni dei popoli con i quali entrava in contatto. Talora e in alcune zone dell’Ellade se ne registra l’equivalenza con Cureti e Coribanti, i sacerdoti e seguaci del dio Dioniso. Mentre a Lemno, i Cabiri (che da un frammento eschileo superstite pare di capire fossero colà rinomati anche per l’eccellente vino, tanto che Giasone e gli argonauti, durante la loro sosta nell’isola, ne restarono ubriacati) erano in rapporto con il dio del fuoco Efesto, come aiutanti del nume nella sua arte fabbrile (un loro appellativo suonava infatti Ἡφαίστοι).

cabiria

Perché d’Annunzio abbia usato il nome Cabiria (che le fonti ci dicono essere stata una sua trovata estemporanea, che gli richiese uno sforzo di non più che qualche minuto, a differenza dei nomi di altri personaggi, sui quali egli a lungo ponderò e riflettè), applicandolo alla figlia di un mercante catanese, rapita e scampata due volte all’olocausto del mostruoso Moloch, idolo cartaginese che signoreggia sulle fiamme, pare, a tutti coloro che del film di Pastrone/d’Annunzio si sono occupati, limpidissimo, stanti i rapporti di cui si è appena detto. Nondimeno, a qualunque classicista i Cabiri richiamerebbero, primariamente e piuttosto, altre connessioni da quella con Efesto. In epoca storica, i Κάβειροι, invocati anche come Οι Μεγάλοι Θεοί (“I grandi dei”, i Dii magni potentes valentes dei Latini) appaiono infatti come demoni della vegetazione, protettori dei naviganti e, quel che più conta, oggetto di un importantissimo e fiorente culto misteriosofico, che in progredire di tempo, durante l’età ellenistica, prese piede nella maggior parte del mondo greco e di lì rifluì nella latinità, avendo come cuore l’isola di Samotracia. Sul loro numero, non c’è consenso tra i mitografi: secondo una tradizione, i marinai fenici che approdarono alle coste della Tracia recando seco questi dei, ne contavano otto (uno dei quali, Eshmun, era in privilegio, gli altri non essendo che “seguaci” di rango inferiore). Altrove si ha notizia di quattro Cabiri, i cui nomi ci sono stati tramandati solamente in uno scolio di Apollonio Rodio: ΑξίεροςΑξιοχῆρσαΑξιοχῆρσος e Κάδμιλος, che per assimilazione con le divinità venerate nella mistica Eleusi furono altresì identificati in Demetra, Persefone, Ades ed Ermes. Tuttavia, non manca chi ne parla come di una sola coppia, che appare sia maschile sia femminile, e si danno anche tracce di una loro sovrapposizione ai Dioscuri, Castore e Polluce.

cabiria3Ora, non è da dimenticare che Cabiria fu, in principio, unicamente il titolo trovato da d’Annunzio per il film e che solo in un secondo momento venne adattato anche alla giovane figlia di Batto, Eunòa (in una lettera al Poeta, senza data ma risalente con tutta probabilità alla fine dell’agosto del 1913, Pastrone gli esternava, infatte, garbate perplessità sull’efficacia di quest’ultimo nome). L’eco dei segreti cabirici, celebrati nei penetrali del santuario di Samotracia, aggiunge uno charme arcano alla “visione storica del III° secolo avanti Cristo” di Cabiria, corroborandone l’esoterica tessitura di cerimonie cartaginesi e punici olocausti; sicché l’epigrafe dannunziana appare, nella sua dotta ricercatezza, adeguata al tema. E a sua volta, anche la spiegazione del nome della fabulae persona come “nata dal fuoco”, richiamandosi agli Ἡφαίστοι e ad Empedocle, fornisce un perfetto esempio di come il Vate sapesse, da par suo, far di necessità poesia.

MACISTE

“Indovinatissimo Maciste, al quale bisogna però trovare un’altra patria: ne feci un mulatto”, scriveva Pastrone al Maestro carissimo, d’Annunzio, l’indomani dall’avere ricevuto la lista dei nuovi nomi per Cabiria. Maciste, infatti, conservò il colore fosco della pelle e fu l’origine marsica, che Gabriele aveva immaginata per il carattere, a scemare nell’oblio, allorché il titanico Bartolomeo Pagano abbandonava un operoso passato quale “camallo” nel porto di Genova, per aprirsi a nuovi destini di gloria nel cinema. Intorno al nome di Maciste, molto più di quanto accadde con quello di Cabiria, si è addensato da un secolo in qua l’interesse degli studiosi. Tra le molte sciocchezze fluite da penne quantomeno fantasiose, meritano particolare segnalazione quelle di M.D. Cammarota jr. (in Il cinema peplum, Fanucci, Roma, 1987), il quale, partendo da un Magiste allotrio di Maciste, approda al sapere magico e iniziatico dei Magi persiani e conclude per una sorta di simbiosi tra la figura del forzuto e il fantomatico Conte di Saint-German, capace di scivolare attraverso le più svariate epoche e di apparire nei contesti più impensati, tra le belve preistoriche, così come alla corte dello Zar – ed ecco allora spiegato il perché della dislocazione temporale e spaziale che sarà tipica del Maciste cinematografico. A questo punto, perché non sostenere, a proposito del nome Cabiria, che d’Annunzio avesse letto le prose cabalistiche pubblicate dall’archeologo Grasset d’Orcet sulla Revue Britannique, inerenti anche il culto dei Cabiri, e da ciò avesse tratto buon partito per disseminare i suoi interventi sul film di sottili calembours esoterici? Ma il Cammarota (in buona compagnia con la scuola peplumista francese) inclina a credere anche alle paraetimologie sul nome di Maciste create dagli sceneggiatori dell’età d’oro del cinema mitologico, che al colosso di turno misero in bocca la frase: “Sono Maciste e sono nato dalla roccia”.

Da Maciste a macigno (roccia, pietra) l’associazione era semplice e immediata per l’orecchio popolare, ancorché non facesse grazia a d’Annunzio – ma chi si ricordava più di lui come padre dell’eroe, cinque decenni più tardi? – di tutta la squisita e raffinata cultura che gli apparteneva. Quando, nell’ambito della stessa questione etimologica, il Cammarota pare scrivere qualcosa di sensato – Maciste da una radice latina macis- “macigno”, terminata a mo’ di participio passato greco -ιστη, egli attinge disinvoltamente alla farina del sacco altrui, guardandosi bene dal citare la fonte. La paternità dell’idea appartiene, infatti, a Tatti Sanguineti, che in Gli uomini forti (a cura di Alberto Farassino, Tatti Sanguineti, Mazzotta, 1983) la giustifica come “verità filologica”, aggiungendo che sul nome dannunziano dell’eroe “si sta incrostando una paraetimologia cinematografica romanesca. Da ‘magis’, “er più” […]. Per non parlare delle nuove illetteratissime generazioni che vorrebbero ricondurre a ‘macho’ il nome dell’audacissimo e casto schiavo numida”. Anche qualche accademico ha postulato l’esistenza di una via che da Maciste potesse risalire a “macigno”, ma – correttamente – tramite il greco μεχανή e senza tirare in causa un’inesistente radice latina macis-. Spiega Umberto Albini a Michele Giordano, nel volume I giganti buoni: “Sarebbe affascinante se d’Annunzio avesse preso il termine Maciste da μεχανή: è una parola che dà l’impressione di forza, di macchina distruttrice, imbattibile, che porta alla mente la figura di un uomo grande e potente”. Nel ventaglio delle ipotesi, comunque, l’Albini pone questa etimologia come terza, sussidiariamente ad altre due, che ci avvicinano al vero punto della questione.

cabiria1L’interpretazione oggi più accettata del nome di Maciste, lo fa derivare da μάκιστος, forma dorica del superlativo μήκιστος dell’aggettivo greco μακρός “grande”. Quindi: “il più grande, grandissimo”. La ragione per cui il Poeta abbia utilizzato la forma dorica del superlativo, anziché quella ionica (che avrebbe dato come risultato Meciste) non mi consta che nessuno se lo sia mai posto come problema, né l’abbia considerata una difficoltà. Continua l’Albini: “C’è nell’Agamennone di Eschilo un monte che si chiama Μάκιστος, un monte alto e grande, dal quale si vedono i fuochi che segnalano la presa di Troia. Dopo una lunga catena di fuochi che passano da un monte all’altro, il bagliore ‘come un sole d’oro, raggiunge luminoso le sentinelle sul Macisto’. È il verso 289 dell’Agamennone…”. La traccia eschilea è assai tentante: il massiccio del Macisto, in Trifilia, nel Peloponneso, ben si adatta a suggerire la forza, l’imponenza e la vigoria del “prode liberto” dannunziano. Qualcuno si è poi messo ad inventariare tutte le occorrenze, nella grecità, di nomi propri che avessero consonanza con quello del nostro Maciste: si va da un Μάκιστος, eponimo del monte che menziona Eschilo, uno dei figli di Atamante e fratello di Frisso ed Elle, che fondò in Elide una città che portava il suo stesso nome, ad un fiume, sempre dell’Elide, di cui parla Senofonte nelle Elleniche, fino alla città di Makistos o Macistum, in Arcadia, ricordata da Erodoto e Plinio. Altrimenti c’è quel Μηκιστεύς, fratello di Adrasto, che il mitografo Apollodoro pone tra i sette che attaccarono Tebe. E c’è, infine, il racconto di Erodoto, a proposito di un condottiero persiano caduto a Platea, di nome Μασίστιος che i greci chiamavo Μακίστιος, con tutta probabilità a causa della sua taglia enorme e della sua possanza – a tal punto che lo storico si diffonde sullo stupore che destarono tra le file dei vincitori la grandezza e la bellezza del cadavere dell’avversario.

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Il bandolo della (apparente) matassa era sotto gli occhi di tutti, come al solito. Ma come al solito, tutti hanno preferito creare del proprio, anziché riferirsi ai documenti. Bastava darsi la briga di leggere l’autografo di Gabriele d’Annunzio, in cui il Poeta sottoponeva a Pastrone i nomi trovati per i personaggi di Cabiria (ad esempio, in Giovanni Pastrone, Gli anni d’oro del cinema a Torino, a cura di Paolo Cherchi Usai, Strenna Utet 1986) per giungere a capo dell’enigma. D’Annunzio, tra parentesi sotto il nome Maciste, infatti chiosa: “che è un antichissimo soprannome del semidio Ercole”.  Μακίστιος come appellativo del figlio di Zeus e Alcmena poggia sull’unica testimonianza di un passo del geografo Strabone, il quale fa riferimento a un tempio di Eracle Macisto (Μακιστίου Ἡρακλέους ἱερόν) presso la città di Macisto nell’Elide, dianzi ricordata. Come concludere, dunque, se non  rilevando la bizzarra volontà del fato che a contrapporre nell’immaginario filmico ad Ercole, sino a sopravanzarlo nella possa e nel numero delle imprese, vieppiù mirabolanti e strane, pose un rivale, Maciste, che altro non celava se non un secondo se stesso?