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Children of the Corn

2023
REGIA:
Kurt Wimmer
CAST:
Elena Kampouris (Boleyn Williams)
Kate Moyer (Eden Edwards)
Callan Mulvey (Robert Williams)

Il nostro giudizio

Children of the Corn è un film del 2023, diretto da Kurt Wimmer.

Quando si arriva a raschiare il fondo del barile, le opzioni non possono che essere due: fare appello al proprio innato senso del pudore per fermarsi prima del disastro, oppure, qualora le unghie e la testardaggine fossero particolarmente affilate, si può tentare la rischiosissima tecnica dello sfondamento, trovandosi a navigare nei profondi lidi della più impudente faccia tosta. Ed è appunto con la risoluta aggressività di un quaterback della NFL che lo sfacciato Kurt Wimmer ha scelto di premere il già scalcinato bottone di reset di una delle saghe più iconiche dell’orrorifico Olimpo, generatasi dalla brulicante fantasia letteraria del Maestro Stephen King e capace di attraversare tutt’altro che indenne gli insidiosi anni ’80 e ’90, culminando stancamente, alle soglie del secondo Millennio, con una manciata di infimi prodottini direct-to-video non certo all’altezza dei propri gloriosi natali. Così, dopo l’ottavo e finora ultimo capitolo Runaway che pareva aver picchiettato l’ultimo chiodo su di una più volte annunciata pietra tombale, Colui Che Cammina Dietro I Filari sembra aver cacciato nuovamente fuori la sua demoniaca testolina nel mezzo dei celeberrimi insanguinati campi di grano dell’outback californiano, fresco e pimpante per un rischioso ritorno alle origini con questo ennesimo Children of the Corn che, dopo tre anni di inspiegabile stand by, lungi dal voler essere un semplice remake pare aver tutta la boriosa presunzione di un vero colpo di spugna.

Niente numeri o sottotitoli, così come la non scritta convenzione dei legacyquel 3.0 da tempo ormai esige, ma un semplice e schietto Children of the Corn che, tuttavia, dimostra fin da subito la volontà di riprendere il racconto di King del 1977 – già protagonista del primo cultissimo capitolo del 1984 e di un ulteriore dimenticabile rifacimento nel 2009 – e di metterle rispettosamente da parte, preferendo ripartire non tanto dalle ben note origini, quanto piuttosto da ciò che venne giusto prima. Si, esatto: proprio da quel sanguinario e sovrannaturale casus belli che portò i dolci e indifesi giovinetti di una sperduta cittadella del Nebraska a falciare letteralmente, oltre che le sterminate distese di mais, l’intera popolazione adulta, il tutto per nutrire l’ancestrale e sovrannaturale entità ben celata fra le pannocchie del circondario. Stavolta, però, non è più la Gatlin dei polverosi anni ’80 a fare da sfondo a questo dubbioso reboot in abiti da prequel, quanto piuttosto la Rylstone di oggidì, desolata e morente quanto il suo stesso granturco e prossima a essere svenduta per quattro dollari vigliacchi dai suoi stessi disillusi abitanti. Ignari del fatto che, proprio per curare il misterioso morbo che affligge in profondità questa terra dolorante e appestata, i loro stessi figli, capitanati da una temibilissima Eden (Kate Moyer) erede del fu Isaac, si preparano a prendere in mano la situazione e a dare a Lui – anzi, a Colui Che Cammina Dietro I Filari – l’emoglobinico sacrificio di cui disperatamente abbisogna. I tutto mentre la coraggiosa Boleyn (Elena Kampouris) dovrà tentare disperatamente di arginare il dilagare di questa imberbe moria, prima che l’implacabile falcetto della Morte si abbatta su tutti coloro che da tempo hanno ormai abbandonato le stramaledette scuole dell’obbligo.

Eccezion fatta che per l’immancabile suggestione di fondo, c’è da dire che rimane ben poco del King touch in quest’ultimo Children of the Corn: un prodottino onesto e senza particolari pretese che si posiziona stabilmente diversi gradini più in su di quell’immondo obbrobrio di Jeepers Creepers: Reborn ma inevitabilmente anche numerosi piani più in basso rispetto al viscerale Candyman di Nia DaCosta o all’ipnotico Hellraiser di David Bruckner, senza dunque essere un convinto ma nemmeno un categorico no. Un onesto , insomma, senza particolare infamia né alcuna lode, diretto con discreto mestiere da un redivivo Wimmer che, ancora in dormiveglia dopo un forzato letargo professionale di quasi vent’anni a seguito dello scottante floppone del fu Ultraviolet, ritorna qui dietro la macchina da presa con un piglio insolitamente morigerato rispetto a un tale soggetto, concedendosi giusto quel tanto di truculenza e di lercio mood campestre che genere comanda. Certo è che, quando nell’ultima mezz’oretta l’incontinenza registica inizia a farsi sentire e il nostro sceglie impudentemente di mostrare ciò che otto capitoli e trent’anni di saga non hanno mai osato mostrare per ben ovvi motivi, beh, la puzza di trash inizia a farsi sentire bella forte: penetrante e miasmatica come quel pestilenziale fungo che, al pari della mostruosa entità che mai andrebbe nominata né tantomeno rivelata, proprio dal grano trae la propria forza vitale. Ma non serve stupirsi più di tanto, poiché, come ormai abbiamo imparato a nostre cinematografiche spese, nella vita, così come nel cinema, niente muore mai per davvero nel mais…