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Diavolo in corpo

1986
REGIA:
Marco Bellocchio
CAST:
Maruschka Detmers (Giulia)
Federico Pitzalis (Andrea)
Anita Laurenzi (Sig.ra Pulcini)

Il nostro giudizio

Diavolo in corpo è un film del 1986, diretto da Marco Bellocchio.

Volendo schematizzare – a rischio di diventare scolastici – possiamo dire che ci sono “due” Marco Bellocchio, imprescindibili l’uno dall’altro: il Bellocchio politico/sociologico (da Sbatti il mostro in prima pagina a Marcia trionfale, fino al recente Il traditore) e il Bellocchio psicanalitico (La visione del sabba, Il sogno della farfalla, Il principe di Homburg) – anche se nel suo cinema la psiche permea sempre la società, e viceversa, in un percorso di ribellione sociale e individuale. Ci sono poi alcuni film dove i due aspetti convergono in modo preponderante: dal classico I pugni in tasca al controverso Diavolo in corpo (1986), non una delle sue opere più conosciute ma sicuramente una tra le più riuscite. Forte e scabroso, è un film-scandalo dove il furore artistico penetra in maniera straripante (e forse irripetibile nella sua filmografia), attraverso una regia potentissima – quasi alla Zulawski – interpretazioni viscerali e scene erotiche di estremo realismo. Diavolo in corpo è espressamente dedicato dal regista allo psichiatra e psicoterapeuta Massimo Fagioli, celebre per le sue teorie in aperto contrasto con la psicanalisi tradizionale, e ispiratore costante del Bellocchio psicanalitico dagli anni Ottanta in poi. Vagamente ispirato al romanzo Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet e co-sceneggiato dallo stesso Bellocchio, ha come protagonista Giulia (Maruschka Detmers), una ragazza nevrotica il cui padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse – siamo nell’Italia di piombo degli anni Ottanta – e che è fidanzata con un terrorista attualmente in carcere. Un tentativo di suicidio attira l’attenzione di Giulia e di Andrea (Federico Pitzalis), studente liceale che subito si invaghisce della giovane, tanto da seguirla fino in tribunale dove si sta svolgendo il processo al suo compagno. Giulia si accorge delle attenzioni del ragazzo e le ricambia: fra i due sfocia una passione incontenibile, osteggiata tanto dal padre di Andrea – psicologo che ha avuto in cura la ragazza – quanto dalla futura suocera di lei.

Seppure fra numerosi ostacoli e crisi, la relazione fra i due prosegue, fino a quando il terrorista viene scarcerato e Giulia deve compiere una scelta. Se c’è un denominatore comune nel cinema di Bellocchio, esso è la rivolta, la ribellione contro il sistema: contro la famiglia, le istituzioni, la politica, la religione, la psicanalisi tradizionale, un filo conduttore che permea la sua intera filmografia e che emerge in modo dirompente anche in Diavolo in corpo. Giulia e Andrea sono due ragazzi di buona famiglia (lei sale su una Maserati, lui è figlio di un professore e indossa Lacoste), eppure vivono una profonda irrequietudine sociale ed esistenziale, la quale li porta a sconvolgere le loro vite in nome di una passione dove il corpo e l’erotismo diventano strumento di ribellione: è il “corpo politico” messo in scena da Bertolucci in Ultimo tango a Parigi e nel più recente The Dreamers, o dal primo Tinto Brass pop-avanguardista, qui riformulato attraverso uno sguardo (anti)psicanalitico. Entrambi i protagonisti vivono un profondo disagio sociale e familiare, nuclei dove il dialogo è assente: Giulia con la madre (Anna Orso) e con la futura suocera (Anita Zagaria), e Andrea con il padre psicologo (Alberto Di Stasio), che invano lo mette in guardia sul carattere instabile della ragazza. È quel conflitto generazionale che anche Gianni Amelio metteva in scena con l’altrettanto riuscito Colpire al cuore (1982), più edulcorato nei contenuti ma accomunato dal tema del conflitto fra genitori e figli sullo sfondo del terrorismo. Anche Giulia è una ribelle – addirittura, il padre è stato ucciso dai terroristi e lei si fidanza con un terrorista – e forse da questa inquietudine esistenziale nasce il suo conflitto interiore fatto di nevrosi e ninfomania (vedasi il flashback in cui si mostra nuda allo psicologo – o era un sogno?).

Valore aggiunto di Diavolo in corpo – senza cui non sarebbe stato lo stesso film – è la magnifica Maruschka Detmers, attrice olandese poi riciclata in fiction televisive ma che ha lavorato anche con Godard e Ferreri: incarna Giulia, giovane, bella, irresistibile – spesso interamente nuda, mostra generosamente i seni coi capezzoli turgidi e il pube peloso – incarnazione di una sessualità dirompente e di un bisogno d’amore disperato e incompreso, ed è protagonista di un’interpretazione urlata, fra gelosia, sbalzi d’umore, possessività, crisi e risate isteriche; più misurato, ma efficace, il bel Federico Pitzalis, qua alla sua unica apparizione cinematografica. La regia di Bellocchio è coraggiosa ma non punta allo scandalo gratuito, è spinta all’eccesso ma senza rinunciare all’eleganza stilistica (fotografia, musica e montaggio sono di alta scuola). L’erotismo entra quindi in scena in modo graduale ma inesorabile: prima un amplesso dietro le sbarre, poi l’apparizione nuda della Detmers, il bacio appassionato tra i due amanti, la protagonista che masturba il fidanzato sotto il tavolo del parlatorio in carcere, infine alcune sequenze che nel cinema di oggi sarebbero irrealizzabili. La più famosa è la fellatio non simulata che la Detmers pratica a Pitzalis sul letto, con dettagli del pene eretto che entra in bocca, ma è degna di nota anche la scopata selvaggia fra i due sul letto – con poche inquadrature, ciascuna di lunga durata, dunque con un uso ridotto del montaggio che crea un realismo estremo. Diavolo in corpo è un film amaro, disperato, una storia d’amore (im)possibile nell’Italia insanguinata dal terrorismo fra una ragazza mentalmente instabile e un ragazzo ribelle: un puro distillato del cinema di Bellocchio, che tenterà di ripetere una formula simile con il successivo La visione del sabba, senza però raggiungere questi livelli.