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Braid

2018
Titolo Originale:
Braid
REGIA:
Mitzi Peirone
CAST:
Madeline Brewer (Daphne)
Imogen Waterhouse (Petula)
Sarah Hay (Tilda)

Il nostro giudizio

Braid è un film del 2018, diretto da Mitzi Peirone.

La scienza ci insegna che le grandi menti partoriscono le cose migliori entro e non oltre i ventisei anni d’età. Giusto in tempo dunque per un folgorante esordio come quello di Mitzi Peirone, bella e altrettanto brava modella torinese trapiantata in quel degli States che, dopo aver macinato una discreta quantità di chilometri in tacchi alti proporzionale alla corposa mole di letture filosofico-psicologiche che si è nel frattempo sbaffata fra una kermesse e l’altra, così, di punto in bianco, ha deciso di mettere momentaneamente da parte passerelle e paillettes per votarsi, anima e corpo, alla macchina da presa. Ciò che né saltato fuori, così al primo colpo, dopo appena due corti di riscaldamento, è Braid, un folle, surreale e disturbatissimo incubo ad occhi aperti che, detto fra noi, è una delle cose migliori capitateci fra capo, collo e schermo nel corso dell’ultimo decennio. Un’esagerazione dite voi? Dateci un’occhiatina e poi ne riparliamo. Sempre, s’intende, che riusciate a scovarlo da qualche parte. E sì, perché dopo il trionfale battesimo del fuoco nientepopodimeno che al FIPILI Horror Festival 2018 di Livorno – dove la sua presenza ha suscitato grande stupore manco fosse la seconda venuta del Messia con il di lui Padre al seguito –, nonostante gli allori newyorkesi del Tribeca Film Festival e un degno (seppur limitato) passaggio nelle sale a stelle e strisce, dalle nostre parti questa conturbante opera prima ha fatto miseramente perdere le proprie tracce da oltre un annetto. Ma si sa: se misteriosi sono i piani dell’Altissimo, quelli della distribuzione italiana manco Nostradamus ha saputo interpretarli.

Va detto fin da subito che con Braid non ci sono mezze misure: o lo si ama o lo si odia. Ma, soprattutto, o ci si lascia trasportare dalla sua lisergica e stordente atmosfera fin dalle prime battute oppure è meglio chiudere al primo quarto d’ora e andare a portare a spasso il cane. Detto ciò, si inizia alla stragrande con la rocambolesca fuga, modello Natural Born Killers, di Tilda (Sarah Hay) e Petula (Imogen Waterhouse),  balzana coppietta di stilose delinquenti inguaiate fino all’osso sacro dopo aver perduto, nel corso di una retata, ben ottantamila dollari di stupefacenti e ora costrette a piegarsi alla succulenta fetishcorruzione di un capotreno per poter portar via la pellaccia dal luogo del misfatto. Basterebbe solo questo a mandare tutti a casa col sorriso sulle labbra e a schiaffare in mano alla Peirone una laurea honoris causa. Ma tranquilli, perché il bello deve ancora arrivare. Specie dopo che le nostre due Thelma e Louise, prese dall’ansia di arrivare alla fine della giornata con ancora tutte le rotule al posto giusto e con le dita di mani e piedi in numero pari, decidono di circuire la ricchissima e sbroccatissima amica d’infanzia Daphne (Madeline Brewer), le cui rotelle si sono perdute per strada a causa di un fu incidente causato, forse, proprio dalle due malfamate compagne di giochi. Per scovare il gruzzolo ben custodito nella capiente cassaforte dell’immensa magione della pazza compare, le due pulzelle dovranno però assecondarne le schizofreniche fantasie, partecipando attivamente a un grottesco e potenzialmente letale gioco di ruolo nel quale occorre seguire tre semplici ma insindacabili regole: tutti devono giocare, non sono ammessi estranei e, cosa più importante, nessuno può abbandonare la partita.

Fin qui, eccezion fatta che per un uso intensivo del grandangolo e una recitazione da teatro dell’assurdo, il tutto sembrava ancora filare, se non perfettamente nei ranghi, quantomeno nei paraggi della “normalità”. Giunti al terzo atto, però, la narrazione è costretta ad alzare le mani e ad arrendersi, con la coda fra le gambe, a una forma del tutto sconclusionata, un trip di acidi filmici degni di un rigurgito surrealista nel quale le nostre tre belle figliole protagoniste sguazzano allegramente come anatroccoli in uno stagno, mandando a farsi benedire il già labile confine fra fantasia e realtà, per trascinare anche noi spettatori, senza troppi complimenti, in questo delirio di assurdità, gore e tanto tanto malsano black humour da ospedale psichiatrico. Ad aver tempo e pazienza, dentro a Braid ci si può scovare un po’ di tutto, dal sadico grand guignol made in Lars von Trier ai deliri al neon di Refn, passando per il camp lynchano e le torbide ossessioni erotiche in rosa de L’inganno versione Sofy Coppola. Ma anche a dar sfogo a tutta la propria fame cinefila, non si può negare che la bella Mitzi abbia partorito qualcosa di unico e personalissimo, una bislacca e disturbante storiella di menti sull’orlo di una crisi di nervi, la cui già labilissima sanità se ne va progressivamente a farsi friggere in perfetto tandem meglio di una squadra di nuoto sincronizzato, sbattendo sonoramente il muso contro un finale tanto scioccante quanto splendidamente coerente.  Come dicevamo poc’anzi, l’unico modo per poter aver anche solo una vaga idea di che caspiterina stiamo parlando è darci una bella occhiata. Perché, se Braid è solo l’antipasto, stati sicuri che ora del dolce la Peirone ci sfornerà altri mille gustosi manicaretti.