Featured Image

Gotti – Il primo padrino

2018
Titolo Originale:
Gotti
REGIA:
Kevin Connolly
CAST:
John Travolta (John Gotti)
Spencer Rocco Lofranco (John A.)
Kelly Preston (Victoria)

Il nostro giudizio

Gotti – Il primo padrino è un film del 2018, diretto da Kevin Connolly

Forse non c’entra niente, o il paragone è azzardato, ma Gotti – Il primo padrino di Kevin Connolly, che in realtà non è di Connolly, né di nessun altro, ricorda un po’ troppo la messa in scena di un oscuro film diretto da J.C. Chandor: 1981 – Indagine a New York (2014). Qualcuno lo avrà visto, molti l’avranno dimenticato, certo nessuno lo rimpiangerà. Aveva persino subito la gogna della distribuzione sui patri litorali, confinato in qualche cinemino di provincia o allo spettacolo notturno del multisala. Gotti farà probabilmente la stessa fine. Distribuito, dimenticato, vituperato come già è successo oltreoceano. La messa in scena è d’altronde la stessa, la concezione dell’impianto drammaturgico pure: freddezza, sottrazione, lentezza. Ovvero quella roba che in Atom Egoyan potrebbe anche scambiarsi per geometria, sapienza di tecnica, controllo dell’immagine, e in chi lo imita, o vorrebbe imitarlo, si muta in una specie di manierismo claudicante.

Gotti vorrebbe essere un film di mafia, godurioso e ruspante, ma già dal minutaggio iniziale si coglie la sua anima più profonda: la clonazione di tanto altro cinema, ma prosciugata di succo, di sangue, di sperma, di tutti quei liquidi che rendono l’opera degna di essere contemplata.
L’errore è d’altronde scusabile, visto che in questo filmetto di carne al fuoco ce n’era tanta, anche troppa, e i numerosi produttori che si sono avvicendati al progetto, coadiuvati da una pletora di registi, registucoli, attori e attorucoli e pretendenti al trono, hanno dato forfait. Al timone doveva esserci Barry Levinson, poi Nick Cassavetes, quindi Joe Johnston (quello di The Pagemaster e Wolfman con Benicio del Toro). Infine Connolly, il peggiore. Chi è costui, vi chiederete? Un emerito signor nessuno che ebbe il suo momento di gloria quando, appena sedicenne, recitò con Stallone in Rocky V. Segue prevedibile carriera da asfaltatore delle retrovie, con particine all’ombra dei grandi, un po’ di televisione, qualche regia disseminata qua e là come le briciole di Pollicino.

Il passaggio da Levinson a Connolly attraverso Cassavetes (che probabilmente l’ha raccomandato visto che avevano già lavorato assieme) spiega tante cose, come quello da Al Pacino e Joe Pesci a John Travolta. Sì, Gotti doveva essere un progetto grandioso, complesso, scorsesiano, forse addirittura un Bildungsroman sull’ascesa, la caduta e la morte del boss americano John Gotti. Di tutto questo profluvio di idee, intuizioni e materiali non resta che l’interpretazione di Travolta che cambia, si adegua, passa dalla giovinezza, alla mezza età, alla malattia. Travolta come Nicolas Cage come De Niro: un divo alla frutta, bravissimo, colossale, mutaforma, ma ormai avviato alla decadenza e incapace di ritirarsi dignitosamente dalle scene. È una malattia, la sua, per la quale non è stato ancora inventato un nome, ma che si può riassumere in una sequenza di aggettivi semanticamente affini: narcisismo, ostentazione, autocompiacimento. Tutt’attorno un nulla greve e sfilacciato che fugge con spavento alle sferzate del mattatore.