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Phantasmagoria

2014
Titolo Originale:
Phantasmagoria
REGIA:
Mickaël Abbate, Domiziano Cristopharo, Tiziano Martella
CAST:
Venantino Venantini
Vittorio Castellano
Maya Dolan

Il nostro giudizio

Phantasmagoria è un film del 2014, diretto da Mickaël Abbate, Domiziano Cristopharo, Tiziano Martella.

L’antica invenzione dei film a episodi è tornata di moda negli ultimi anni, soprattutto nel cinema horror e nel circuito indipendente, spesso con registi diversi per un unico film. La co-produzione italo-francese Phantasmagoria (2014) è sicuramente uno fra gli esperimenti più riusciti in tal senso: nato da un’idea del regista francese Mickaël Abbate (direttore della Semaine du cinéma fantastique), unisce il medesimo con due registi italiani, Domiziano Cristopharo (tra i più visionari e prolifici del panorama nostrano) e Tiziano Martella (noto soprattutto come effettista). Presentato con successo in vari festival, ne è stata in seguito approntata una director’s cut con scene in più – soprattutto nell’episodio di Abbate – e prossimamente sarà distribuito in DVD. Phantasmagoria è un canone a tre voci: tre episodi, tre stili differenti, accomunati dagli omaggi al gotico (soprattutto italiano), dalle case infestate e dall’ambientazione nella notte di Halloween. Le tre storie sono raccolte da una cornice in stile Creepshow, con uno scheletro in stop-motion (di Paolo Gaudio: Fantasticherie di un passeggiatore solitario) che fa da narratore, con tanto di citazioni colte da Poe, Maupassant e King. Se la cornice cita lo “Zio Tibia” e l’horror americano anni Ottanta, gli episodi vanno in una direzione diversa. Diabolique di Abbate apre le danze, con una vicenda ambientata sulla Costa Azzurra: tre ragazze e un ragazzo sono in viaggio per studiare presunti fenomeni alieni, ma la loro attenzione viene ben presto attirata da una misteriosa villa; Marilyn (Maya Dolan) ne subisce uno strano fascino che la ipnotizza, e una signora del luogo spiega al gruppo la lugubre storia della casa maledetta. È l’episodio più straniante, a partire dall’ambientazione che gioca sul contrasto: non la notte o interni gotici, ma paesaggi esterni e assolati, illuminati da una luce abbacinante che contribuisce all’atmosfera agorafobica – un po’, se vogliamo, il meccanismo usato da Avati in Zeder.

Abbate gioca soprattutto sul non-visto, ma riesce a creare un clima ansiogeno utilizzando elementi minimalisti: la fotografia abbagliante, la musica ipnotica, le inquadrature sulla casa, le figure bianche che si muovono in strada, gli incubi concentrici e i racconti della strana donna (Sophie Pâris). La Costa Azzurra è un luogo ricco di misteri, e il regista sfrutta al meglio le location e le leggende locali; la director’s cut introduce un finale sanguinario e meta-cinematografico, con protagoniste due ragazze lesbiche impegnate in discussioni sul cinema horror, in cui al gotico si unisce il tema dei “film maledetti”. All’agorafobia di Diabolique fa da contrappunto la claustrofobia di My gift to you di Tiziano Martella: l’effettista si dimostra abile anche dietro la macchina da presa, sostenuto da un’ottima sceneggiatura dove troviamo anche Raffaele “Morituris” Picchio. La piccola Sara nel giorno del suo compleanno assiste al suicidio del nonno (Venantino Venantini), che le lascia un diario come “regalo” per quando sarà grande; 19 anni dopo, la donna torna in quella casa e scopre l’orribile verità sull’insano gesto, mentre ai suoi traumi mentali si uniscono i fantasmi di un passato maledetto. Qui torniamo dunque al gotico più classico, ambientato quasi tutto in interni: è l’episodio più forte dal punto di vista emotivo, in cui gli spettri si uniscono alle ossessioni personali (c’è il tema della pedofilia), rimanendo in bilico fra allucinazioni e soprannaturale. Venantini, nome storico del bis italiano, si conferma un gran signore dello schermo, in un incipit che cita volutamente Second name di Plaza, affiancato dall’efficace Cristina Puccinelli. La storia è supportata da scenografie e fotografia suggestive, tra corridoi bui, porte illuminate da un rosso argentiano e mani che sporgono dal muro in stile Repulsion di Polanski. Compiamo così un viaggio angosciante insieme alla protagonista, fra segreti del passato, presenze inafferrabili e orribili spettri.

Il serpente dalla lingua d’acciaio, come è lecito aspettarsi da Cristopharo, è l’episodio più visionario e allucinato: dopo Shock e prima di The Transparent Woman, il regista prosegue la sua personale rivisitazione del gotico e del thriller italiano – fin dal titolo, un voluto omaggio ai titoli “animaleschi” dei Seventies. Un uomo (Alberto Cattaneo) giunge in paese e chiede ospitalità a un ambiguo locandiere, senza sapere che tempo prima l’albergo fu teatro di un delitto. Nonostante il luogo sia deserto, lo straniero sente voci e passi di donna: l’ambiguo oste non vuole dare spiegazioni, e così dovrà scoprire a sue spese il segreto che si cela in quelle mura. Cristopharo riesce come sempre a omaggiare un genere ma al contempo lo scardina, lo mescola con altro, mettendo in scena un lavoro del tutto personale. È l’episodio esteticamente più raffinato del film, in cui il regista utilizza la sua ricorrente fotografia flou e dai contorni lattiginosi, con luci colorate (rosse, verdi e azzurre) che richiamano Bava e Argento. L’omicidio iniziale per mano di una misteriosa donna armata di rasoio introduce la vicenda gialla con l’assassino da scoprire. Ma il racconto non è solo un giallo gotico, con tutti i crismi del genere compreso lo sperduto paesino di avatiana memoria: la vicenda si snoda infatti attraverso temi forti e ricorrenti nella sua filmografia, quali omosessualità e travestitismo (in alcune scene viene in mente Vestito per uccidere di De Palma), e abbraccia il soprannaturale, fra maledizioni, doppelgänger e trasformazioni cronenberghiane (impressionante la lacerazione carnale e mutazione conclusiva). Bravissimo lo scrittore Cattaneo nel doppio ruolo del protagonista e di Janus, affiancato da un altrettanto efficace Vittorio Castellano nei panni del mellifluo e lynchiano albergatore.