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L’uccello dalle piume di cristallo

1970
Titolo Originale:
L’uccello dalle piume di cristallo
REGIA:
Dario Argento
CAST:
Tony Musante (Sam Dalmas)
Suzy Kendall (Giulia)
Enrico Maria Salerno (comm. Morosini)

Il nostro giudizio

L’uccello dalle piume di cristallo è un film del 1970 diretto da Dario Argento.

Citiamo le fonti, una volta per tutte. Il romanzo La statua che urla di Fredric Brown (The Screaming Mimi, 1949): l’idea-base dell’intreccio (una donna traumatizzata da ragazza diventa omicida, e viene protetta dal suo compagno), e svariati singoli elementi, riproposti con variazione (l’atto di violenza iniziale visto dietro una vetrata, col testimone che diventa detective; la pista dell’opera d’arte – in Dario Argento un quadro naïf , in Brown una statuetta – con visita depistante al suo autore). Mario Bava: La ragazza che sapeva troppo (l’uso degli spazi, di Roma, la casa con la scala nel buio); Sei donne per l’assassino (il look dell’assassino, i guanti neri; quanto alla soluzione, con la coppia di omicidi, è probabile che già gli sceneggiatori di Bava fossero stati influenzati da Brown, uscito come Giallo Mondadori). Eppure. Eppure L’uccello dalle piume di cristallo è qualcosa di nuovo e di scioccante nel 1970. Non assomiglia per niente ai gialli erotico-coniugali stile Il dolce corpo di Deborah (1968). Non assomiglia per niente a Hitchcock, anche se la coda finale di spiega con il commissario e lo psicologo in TV è presa da Psycho. Ha ragione Gomarasca (in Nocturno Book 7 Vecchia Serie, dove Roberto Curti per primo analizza i prestiti da Brown) a indicare i punti di riferimento di Argento in Sergio Leone e Bernardo Bertolucci.

Leone perché Argento inventa e fonda un genere (e un Autore), con un abilissimo lavoro di saccheggio e metamorfosi. Bertolucci (e Michelangelo Antonioni, aggiunge Roy Menarini) perché è al loro stile che guarda Argento: spazi vuoti, angoscia metropolitana, montaggio “astratto” (gli aerei alla fine), enfasi sullo sguardo e la fotografia alla Blow-up. Uno stile cool, moderno, che reinventa la sintassi. E qui conta molto la musica di Ennio Morricone, che sulla scia di Un tranquillo posto di campagna (che non si cita mai, chissà perché) usa per un thriller sonorità sperimentali, e spesso ostiche, da classica contemporanea e musica improvvisata. Con l’arroganza dell’esordiente certo del proprio talento, Argento gioca alto, e vince la scommessa: con i produttori e col pubblico in primo luogo: 1,2 miliardi di incasso, e una valanga di imitazioni. Di che perdere la testa. Rivisto oggi, colpiscono le scorie di cinema italico, di commedia de noantri. Le macchiette di alleggerimento si sprecano: il gallerista gay, il pappone tartaglione, l’informatore reticente, il pittore orco bonaccione che se “magna li gatti” (un grande Mario Adorf).

Argento dovrà arrivare a Suspiria per liberarsi da questa eredità: ma la sostituirà con figure scolorite di ragazzotti adatti a un pubblico internazionale. Di sangue, nell’Uccello dalle piume di cristallo, non ne scorre ancora molto, ma la violenza di alcune situazioni (l’omicidio della tipa in baby-doll trasparente con strappo di mutandina) lascia basiti per l’audacia. La misoginia del regista c’è già tutta: le donne prima sono corpi da affettare, poi killer castratrici da temere. E ci sono già tutte le cialtronaggini, qui ancora simpatiche, che negli ultimi anni diventeranno insopportabili: il verso dell’hornitus nevalis (uccello del “Caucaso meridionale”) come soluzione degna di una storia di Topolino; l’enfasi sulle tecniche di indagine scientifica che poi spesso non servono a un tubo; l’ultima battuta “spiritosa” in voce over che ne ripete una iniziale («E pensare che mi avevano detto che l’Italia era un paese tranquillo»). Servivano davvero a bilanciare la tensione di scene stupende come quella di Suzy Kendall assediata in casa? I fan di Argento, comunque, le dimenticano sempre.