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Scappa – Get Out

2017
Titolo Originale:
Get Out
REGIA:
Jordan Peele
CAST:
Daniel Kaluuya (Chris Washington)
Allison Williams (Rose Armitage)
Bradley Whitford (Dean Armitage)

Il nostro giudizio

Scappa – Get Out è un film del 2017, diretto da Jordan Peele

Prodotto da Jason Blum, il nuovo Roger Corman, con 5 milioni di dollari, Scappa – Get Out è un grandissimo film di generi: horror, thriller, comedy. Un B-movie, da intendersi come black movie. La storia: lui e lei sono due giovani yuppie interracial, Chris (Daniel Kaluuya) è nero, Rose Armitage (Allison Williams) è bianca. Fidanzatisi dopo fugace conoscenza, vanno tosto alla prova del nove, recandosi alla magione della fanciulla per conoscerne la famiglia: il padre, cacciatore neocoloniale, la madre, sorta di parapsichiatra, il fratello, ansiogeno quanto Michael Pitt in Funny Games. A far da contorno, una domestica nera, occhi da aliena, movenze da alienata, e un giardiniere, nero anche lui, podista ostile e linguacciuto. Inquietudine in ogni dove, tensione duale, razziale e generazionale. Poi, di notte, accade il fattaccio: la padrona di casa, tutta occhioni e buone maniere, ipnotizza Chris con una tazzina e  un cucchiaino. E dal mattino dopo, nulla è più come prima… Get Out è una covata malefica di trovate, così sistematiche, così efficaci da sembrare frutto di genio, oppure della fortuna del principiante. Jordan Peele è all’esordio da regista e sceneggiatore e butta dentro al film tutta la sua conoscenza enciclopedica del cinema, dai popcorn movies a quelli che definisce social thriller. Prende il bianco e il nero, e dalla semplice questione razziale ne fa una questione cromatica, di contrasto tra suppellettili, indumenti, fasi della giornata.

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Stante la dicotomia tra i colori neutri, Peele lavora da inveterato mestierante con i simboli: il cervo investito all’inizio, ad esempio, presagio di sventura e preda per antonomasia, introduce il gioco dei gatti con il topo.  A questo proposito, è curioso che nel trailer internazionale ci sia un confronto molto orrorifico tra la testa di un cervo impagliato e lo stesso Chris, preda contro preda, ma questa scena è stata esclusa dal montaggio finale del film. Attraverso i simboli, Peele scandaglia i rituali sociali: i modi patriarcali degli Armitage contrapposti ai modi da city life di Chris; l’ipnosi e la psicanalisi come moderne schiavitù; giochi quali bingo, badminton, bocce e lacrosse resi come se fosse Haneke per Funny Games. Di più, Peele arriva a inventarsi una dimensione onirica tutta nuova, il “Sunken Place”, lo sprofondo della coscienza per le vittime, spettatori passivi del proprio body invasion, dell’horror che stanno vedendo, vivendo e subendo, consapevoli di quello che accade, ma incapaci di opporsi alle altrui intrusioni, incapaci di fare la cosa giusta.

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Il Sunken Place è una metafora fulgida dell’oblio della negritudine (ammesso che essa sia mai esistita), un atto di accusa tremendo alla pax di Obama, la pace sociale che per molti resta una resa sociale, l’oblio volontario delle discriminazioni multirazziali ancora, drammaticamente, in essere. Lungi dal voler essere un qualsiasi cinepredicatore, Peele piazza mine di comicità nei punti più impensati, servendosi di personaggi o di ammennicoli vari (un cavo USB per lo smartphone, un improvvido banjo), orienta la visione tra risate sguaiate e occhi sbarrati, resta sempre dominus nel pieno controllo della sua opera. L’unico aspetto sfuggito al suo controllo è il punto esclamativo, da lui richiesto per dare al titolo del film più efficacia retrò, bocciato invece dalla produzione. Ce lo mettiamo noi: bravo Peele, il tuo film è una bomba!