Make America Scary Again!

Come la presidenza di Donald Trump ha influenzato il cinema horror americano.
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Com’è che si dice? La storia la scrivono i vincitori, giusto? Sta di fatto che, qualche volta, capita che anche i reduci da sonore sconfitte possano lasciare il segno, e anche bello grosso. Nonostante il marasma capitato nel corso di questi ultimi tribolati quattro anni, malgrado abbia clamorosamente toppato un secondo mandato, del caro e vecchio Donald Trump si sentirà ancora parlare molto a lungo. Si, proprio di lui, del più folle e chiacchierato presidente che abbia mai poggiato il suo possente deretano alla scrivania del 1600 di Pennsylvania Ave NW, Washington DC. Lui, protagonista di alcuni dei più allucinati siparietti tragicomici della sociopolitica internazionale dinnanzi ai quali le scappatelle di Bill Clinton, i mafiosissimi maneggi di Richard Nixon e gli scudi spaziali di Ronald Regan non possono far altro che impallidire miseramente. E non è un caso che proprio l’industria dell’intrattenimento, tanto su grande quanto su piccolo schermo, abbia pesantemente accusato il contraccolpo di un tale personaggio, la cui influenza si è avvertita chiaramente in un genere ricettivo e particolarmente omeostatico come l’horror, giunto alle soglie del nuovo millennio in evidente stato di decomposizione ma miracolosamente rinvigoritosi subito dopo l’impensabile esito elettorale del 2016, sfornando una serie di prodotti nei quali l’ombra lunga del ciarliero tycoon la si è sentita in maniera tutt’altro che leggera. Pare davvero brutto che, tra le altre cose, Trump possa vantarsi di aver influenzato il cinema de paura a stelle strisce, ma sta di fatto che, non ancora salito al soglio della presidenza, la sua ingombrante figura già aveva iniziato a picchiettare sorniona alle porte della nostra fantasia. Correva il caldo luglio del 2016 e, a quattro mesi esatti dall’atteso corpo a corpo elettorale fra l’improbabile platinato repubblicano e l’agguerrita democratica Lady Clinton, lo scaltro Jason Blum si preparava a rilasciare la terza distopica avventura della fortunata saga di The Purge, distribuito per l’occasione con il sottotitolo di Election Year. Nella folle e sanguinaria America del 2037 immaginata e portata in scena da James DeMonaco, a scontrarsi per la carica di presidente troviamo una rampante senatrice intenzionata ad abolire definitivamente la proverbiale Notte dello Sfogo e un esaltato predicatore, affiliato all’oligarchica cricca dei Nuovi Padri Fondatori, che vorrebbe al contrario proseguire con lo status quo. Ogni riferimento a fatti e persone reali è, ovviamente, tutt’altro che casuale, se si considera inoltre che la provocatoria tagline “Make America Great” scelta dalla Universal per sdoganare il film nelle sale, guarda un po’, di lì qualche mese sarebbe diventata il tormentone elettorale.

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The Purge: Election Year, James DeMonaco (2016)

Coincidenze dite voi? Può anche darsi. Tuttavia, se è vero che le idee volano nell’aria come polline pronto a fecondare, allora apparirà tutt’latro che strano il fatto che uno come Rayan Murphy, attento osservatore degli orrori di casa propria, a neanche un anno dal solenne giuramento del nuovo Mr. President, abbia dedicato l’intera settima stagione della sua miglior creatura televisiva alle paure e agli incubi post elettorali. Distribuita fra settembre e novembre del 2017, in un’America già consapevole di essere ormai in mani pericolose e alquanto imprevedibili, American Horror Story: Cult prende le mosse proprio da quella fatidica nottata dell’8 novembre 2016, dove una sbigottita Sarah Paulson inizia a covare un gelido terrore riguardo al futuro con la compagna di vita, entrambe costrette a crescere il loro figlio in un paese che, per bocca del suo stesso leader, non vede di buon occhio unioni dello stesso sesso. Come se non bastasse la nostra eroina si troverà a dover affrontare terribili allucinazioni e, udite udite, una pericolosissima setta di pagliacci mascherati, capitanata da uno sciroccato xenofobo che pare uscito dalle file dei Proud Boys. Ma se di pagliacci vogliamo parlare, allora non sarà certo sfuggito come anche il Pennywise immaginato da Stephen King e in seguito riadattato per lo schermo da Andy Muschietti, possa in un certo senso apparire involontariamente come una chiara metafora della stessa America trumpiana. Un paese terrorizzato da decenni di crisi sociale che sceglie di affidarsi alle capriole senza freni di un malefico e vorace mostro mascherato da imbonitore, contro il quale solo una sparuta resistenza di “perdenti” ha il coraggio di ribellarsi. Basta infatti sostituire al metafisico It un ben più orwelliano He per rendersi conto come, in fondo, finzione e realtà appaino tutt’altro che distanti. Mere masturbazioni filmiche? Una cosa è certa: avere la pelle di un colore diverso dal fulgido bianco latte durante la presidenza Trump, non è stata cosa molto facile. Non che lo sia mai stata, a dire il vero. Ma partendo dall’ormai celebre tripletta Columbus-Tulsa-Charlotte fino ad arrivare all’infamissimo caso George Floyd, durante il proprio mandato Donald ha collezionato un fitto curriculum xenofobo, servito a un giovane e scafato cineasta come Jordan Peele per trarre materia fertile con cui nutrire i propri incubi cinematografici.Che sia l’ingenuo afroamericano dato in pasto ai loschi progetti di transumanesimo di un gruppo di bianchi radical chic in Scappa – Get Out (2017), piuttosto che la reietta orda di cloni del sottosuolo in sapore di rivolta visti in Noi (2019), l’idea di una minoranza etnica crudelmente schifata e considerata nulla più che carne da macello ha avuto tutto il tempo di stamparsi bene nelle nostre iridi.

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Scappa – Get Out, Jordan Peele (2017)

Gerard Bush e Christopher Renz con Antebellum (2020)immaginano un terrificante parco divertimenti a tema segregazionista nel quale far rivivere un ignobile e mai troppo lontano passato, un film prodotto, guarda un po’, proprio dal buon Peele. Non stupisce affatto che la raggelante ucronia immaginata da Philip Roth con il suo celebre Il complotto contro l’America sia tornata prontamente a vivere su piccolo schermo, narrandoci la fantapolitica vicenda di un 1940 in cui il famoso aviatore Charles Lindberg, grande fan di Hitler e della sua fissa antisionista, dopo aver clamorosamente battuto alle elezioni presidenziali il mitico F.D. Roosevelt, si prepara per dar sfogo a tutto il proprio populismo rendendo la vita parecchio dura ai membri del popolo di Israele in terra americana. E basterebbero le sole profetiche inquadrature dell’ultima puntata, con l’esito più che mai incerto delle nuove elezioni con mucchi di schede elettorali bruciati di soppiatto in mezzo ai boschi per farci capire come, visti gli eventi degli ultimi mesi, il confine fra finzione e realtà appare più che mai destinato a confondersi. Epidermide a parte, è pur vero che Trump non ha mai dimostrato un atteggiamento particolarmente benevolo e rispettoso nei confronti del genere femminile. Era dunque solo questione di tempo perché, dopo un esordio abbastanza fiacco su grande schermo, il masterpice femminista firmato da Margaret Atwood venisse rispolverato e rischiaffato sulle nostre maschiliste facce. Seppur nuovamente con il filtro della metafora distopica, l’universo seriale di The Handmaid’s Tale ci pone davanti a una società americana profondamente discriminatoria, dove le donne vengono suddivise in caste che vanno dalle “Mogli” dei funzionari governativi fino alle “Ancelle”, schiave sessuali costrette a procreare per donare un figlio alle proprie padrone sterili. Ma attenzione, perché, così come la tostissima Elizabeth Moss protagonista della serie, le Erinni cinematografiche dell’era Trump sono tutt’altro che arrendevoli e sottomesse, sfoggiano un carattere così combattivo da risvegliare un sottogenere abbondantemente inflazionato come il rape and revenge. Ma non solo.

Revenge, Coraline Fargeat (2017)

Revenge, Coraline Fargeat (2017)

Se infatti la conturbante e spietata Matilda Lutz di Revenge (Coraline Fargeat,2017) con il suo fucile da caccia pronto a colpire i rampanti stupratori può essere considerata la paladina del #MeToo cinematografico di genere, non mancano all’appello colleghe altrettanto toste. Sempre in questi anni arrivano sul grande schermo la Jennifer Garner di Peppermint (Pierre Moret, 2018), vigilante impazzita alla ricerca dei responsabili dello stempiamento di marito e figlioletto, la sordomuta Kate Siegel di Hush (Mike Flanagan, 2016), simbolo di una solitaria e silenziosa resistenza contro oscuri invasori al pari della Emily Blunt di A Quiet Place (John Krasinski),  senza dimenticare la Sandra Bullock di Bird Box (Susanne Bier, 2018), madre coraggiosa costretta a badare ai propri pargoli in un mondo minacciato da indefinibili forze oscure che, per nulla al mondo, devono essere guardate direttamente in viso. Sarà forse un caso ma sta di fatto che, nel momento in cui i bambineschi battibecchi tra l’irritabile inquilino della Casa Bianca e l’altrettanto corpulento omologo in terra nord coreana sembravano aver raggiunto un livello tale di tensione da farci dare una bella ripulita ai nostri bunker antiatomici, la quantità di pellicole e serie tv a tema post apocalittico ha registrato un’impennata degna di un titolo azionario di Amazon, specchio di una paura per un radioattivo THE END. Ancora una volta è lo scaltro Ryan Murphy a vederci lungo, confezionando con American Horror Story: Apocalypse un’intera stagione che, fattucchiere e stregonerie a parte, prende le mosse proprio da un olocausto nucleare che ha costretto i pochi sopravvissuti in un misterioso rifugio gestito da un’altrettanto misteriosa setta. Ma tornado fra le poltrone dei cinema, non si sprecano certo pellicole che provano a dipingere un’America – e un mondo intero – martoriati e sofferenti a causa di una non ben definita autodistruzione dinnanzi alla quale nessun potere o istituzione sembrano poter intervenire. Se il Casey Affleck di Light of My Life (2019) si trova a dover difendere la figlia in un mondo in cui le poche donne superstiti sono considerate “merce”  da spartirsi, sulla stessa barca si trova anche il Leslie Odom di Only – Minaccia letale (Takeshi Doscher, 2019), disposto a tutto per mantenere in quarantena forzata la propria compagnia dai residui mortiferi di una cometa che sta mietendo vittime solo tra le portatrici del cromosoma doppia X.

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American Horror Story: Apocalypse (2018)

Non se la cava molto meglio il Joel Edgerton di It Comes at Night (Tyler Edward Shults, 2017), il quale non vede di buon occhio che, nel mezzo di un impietoso cataclisma che ha ridotto l’umanità a un corpo morto, un gruppetto di misteriosi visitatori piombino a mettere in pericolo il precario equilibrio della propria famiglia. Ma in un paese da sempre arrapato per armi di ogni risma, impudentemente caduto sotto la guida di un grande fan del secondo emendamento, non sorprende che l’ossessione incontrollata per il possesso di oggetti di offesa abbia recentemente trovato il suo pieno sfogo in pellicole come The Hunt (Craig Zobel, 2020) e Finché morte non ci separi (Matt Bartinelli-Olpin, Tyler Gillet, 2019), dove l’impiego catartico di strumenti di morte reperiti senza troppi complimenti dalle mani del cittadino comune è  metafora di una società in cui la giustizia personale può essere portata a termine a meno di cinquanta dollari e senza nemmeno un regolare porto d’armi. Nonostante il personale orientamento politico, è indubbio quanto il caro vecchio Donald Trump abbia influenzato l’immaginario audiovisivo contemporaneo, trovando proprio nell’horror e nel thriller i generi cardine con cui essere tematizzato e, perché no, anche esorcizzato a dovere. Basta infatti guardare un personaggio apparentemente insospettabile come il cinico Maxwell Lord di Wonder Woman 1984 (Patty Jenkins, 2020) per rendersi conto come, anche fuori dal confine del genere, lo spettro trumpiano continui a gettare i suoi oscuri semi e a germogliare ben oltre la conclusione del proprio mandato. Un rampante uomo d’affari, dotato di carisma, parlantina facile e melliflua capacità di compiacimento a cui tutti si rivolgono e a cui tutti leccano il didietro per vedere, letteralmente, esauditi i propri desideri. Ricorda forse qualcuno? Certo che si! Anche perché, suvvia, con un Pedro Pascal in giacca, cravatta, rubicondo faccione e capellone biondo paglia, la fonte primaria di una tale reference appare tutt’altro che insospettabile.