La casa del buon ritorno. In profondità

La complessità del thriller di Beppe Cino
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Ci fa più paura l’emergere di una colpa originaria, che ha lasciato in noi un segno indelebile, o il fatale ritorno all’origine, il cui fascino minaccia la nostra precaria identità? Tra questi due poli oscilla un interessante film di Beppe Cino, autore anche dell’introvabile Il cavaliere, la morte e il diavolo (1983). Secondo una considerazione generale, è possibile collocare La casa del buon ritorno (1986) di Beppe Cino a metà strada tra i generi thriller e horror. Dal punto di vista formale e tematico, il film riprende stilemi che vanno dalla cinematografia di Alfred Hitchcock a The Evil Dead di Raimi, da alcune suggestioni fulciane alle atmosfere di Pupi Avati, da John Carpenter a Stanley Kubrick. Nonostante un quadro che potrebbe apparire di maniera, il film di Cino riesce, attraverso una notevole padronanza della tecnica e un suggestivo impianto concettuale, ad avvincere lo spettatore, calandolo in una vicenda in cui i poteri della memoria si insinuano senza posa e conducono a un esito fatale.

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Quando Luca torna nella casa in cui abitava durante la sua infanzia, trova ad attenderlo oggetti e situazioni che gli riportano alla mente la piccola Lola, compagna di giochi di cui era invaghito e che aveva ucciso. Ci rendiamo subito conto che la figura di Lola è tutt’altro che assimilabile a uno sbiadito ricordo o a una nostalgica rappresentazione: la piccola è una presenza ossessiva e totalizzante, destinata a rammentare a Luca il terribile vincolo contratto sotto gli auspici di eros e thanatos. Un patto di sangue che si sostituisce subito, sovrapponendosi senza appello, alla relazione che il protagonista sta vivendo con Margit, la sua futura sposa.

Indossando la maschera di un demone orientale nelle scene iniziali, e rivelando spesso la sua presenza sotto forma di diversi mascheramenti, Lola riveste una funzione demonica: la bambina è un ente che abita quella soglia che separa la sfera dell’identità, che l’adulto Luca solo apparentemente ha raggiunto, dalla dimensione originaria, in cui tutto si dissolve tragicamente e nella quale tutto trova definitiva requie. Il sacrificio di Lola è stato un tentativo di fondare l’identità di Luca, gesto che, distruggendo l’oggetto ideale del desiderio, ha prodotto una colpa originaria che, inevitabilmente, torna a farsi sentire in modo tangibile. Colpa che pretende l’espiazione, e che impone la pena.

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L’emergere del rimosso è presentato dal regista in modo estremamente efficace e suggestivo. Cino è molto abile, grazie a un magistrale controllo dell’atmosfera, nell’evocare una tensione affascinante e temibile, attivando il potenziale sinistro di oggetti e spazi secondo una strategia narrativa che alterna staticità e dinamismo. In particolare, quando la presenza di Lola si rivela in modo dinamico, le soggettive veloci e striscianti – accompagnate da una musica inquietante – finiscono per rappresentare una maschera, un artificio che lo stesso spettatore è chiamato a indossare per collocarsi all’interno della linea di soglia del film.

Se la maschera è un elemento centrale della narrazione, spendibile in funzione sia statica che dinamica, il regista si avvale anche della misteriosa fissità di un manichino, inteso come il doppio negativo della maschera, al fine di rappresentare l’essenza di Lola. È lo stesso Luca a curare e adornare la figura artificiale, il simulacro che sottrae energia alla sua relazione con Margit. Risulta significativo, da parte di Beppe Cino, l’utilizzo dei tre colori alchemici: il nero della dissoluzione (nigredo), il bianco della nuova nascita (albedo) e il rosso della nuova vita (rubedo). Tali colori sono ricomposti soltanto nel manichino, il quale, da incompleto simulacro di Lola, si trasforma in simbolo perfetto della personificazione (persona, dunque maschera) di memoria e origine, colpa e destino, distruzione e rinascita. Veri protagonisti della storia diventano, allora, la maschera e il manichino, consacrando il ritorno della bambina, la cui uccisione era stata rimossa, e relegando gli altri personaggi a comparse accidentali ‒ dotate certo di una chiara funzione all’interno della vicenda, ma sostanzialmente prive di consistenza e di autonomia, e dislocate in una dimensione umbratile ed evanescente.

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L’ipostatizzazione dei fantasmi del passato, il cui assedio al protagonista è icasticamente reso dai precisi movimenti di macchina, consente di spostare l’asse dell’interpretazione dalla costellazione psicanalitica alla dimensione metafisica. In un flashback, un’apertura su una dimensione altra in cui le scale del ricordo traducono la profondità dell’abisso ‒ evoco qui la figura vertiginosa della scala a chiocciola, significativamente presente in una scena del film ‒, assistiamo a un momento di festa, un gioco che cela una sorta di arcano rituale, durante il quale Lola appare in forma di vestale e strega: sacerdotessa di una regione notturna e primordiale dell’essere in cui gli opposti coincidono. Un’entità liminale, al modo di molti bambini all’interno dei racconti soprannaturali (valga qui citare gli esempi di Kubrick e Fulci), che incarna una dimensione originaria, nel contempo amata e tradita da Luca. Temuta e bramata. Il protagonista, al cospetto dell’ostensione di tali profondità (come nella scena in cui si trova davanti a una sorta di altare con polittico dedicato a Lola), prova fascino e paura: vorrebbe consentire alla forza dell’indeterminato, ma teme i poteri delle tenebre. Fugge, ma insegue finendo accerchiato. Difende un fantoccio che rappresenta la piccola strega, cercando di evitarne la distruzione, ma non riesce ad accettare pienamente e definitivamente l’influenza di Lola.

I momenti più inquietanti e stranianti del film valgono da cesura temporale in grado di mettere in contatto i personaggi ‒ e gli spettatori ‒ con una dimensione originaria. All’interno di questa sfera arcana del reale si è collocato Luca nel momento in cui ha portato a coincidere eros e thanatos, siglando la colpa originaria, e nello stesso luogo torna il protagonista al termine del film. Beppe Cino, anche in questo caso muovendosi tra psicanalisi e metafisica, attribuisce alla dimensione primordiale la qualità femminile. Il mondo delle madri assedia il protagonista, e tutti i personaggi femminili finiscono per assomigliarsi e per convergere in Lola: madre metafisica, luogo primo e indifferenziato da cui tutto proviene e a cui tutto torna.

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Una simile dimensione, fatta di presenze, fantasmi, apparizioni, non è sconnessa dalla realtà, ma si incarna nei personaggi, negli oggetti e nelle molteplici maschere che sono all’opera ‒ aleggia all’interno della casa, e sembra trovare un medium efficace persino nella stessa macchina da presa. Inoltre, grazie a un’attenta scelta dei luoghi, il soprannaturale sporge in una dimensione rurale che rimanda alla Stimmung del cosiddetto horror padano. Tuttavia, se in alcuni film di questo genere (pensiamo ai capolavori di Pupi Avati) l’atmosfera è rigorosamente piena, la rivelazione progressiva e implacabile, e l’epifania del male è estesa e corale, nella declinazione di Beppe Cino la narrazione risulta più disarticolata, scandita da momenti di cesura e sospensione, punteggiata da maschere che non formano un quadro disteso e complesso, ma che manifestano un’unica e ostinata presenza: quella della matrice originaria che, sacrificata sull’altare della costruzione dell’identità, torna fatalmente a esigerne il prezzo.