Bruno Dumont

Filosofie nichiliste, l’esegesi cristiana, lo stoicismo, il polar: una colta poetica che si sviluppa per reazione e pigia sul tasto dell’eccesso sessuale...
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Se esiste un regista che oggigiorno persegue con violenta coerenza e maligna insistenza uno studio del «brutto» per immagini, questi è senza dubbio il francese Bruno Dumont, eremita del Nord dell’Esagono, ex-professore di filosofia e singolare esteta di tutto ciò che è laido, repulsivo, non-bello. Bisogna capirlo: tutto ciò che si trova in quel rombo di pianure al di sopra dell’Oise e di Parigi è considerato terra deprimente di barbari alcolizzati dove prosperavano disoccupazione, estrema destra, piogge grigie e endogamia.

Questo territorio da porno zoofilo e film sui serial killer resta tutt’oggi una meta temuta per la stragrande maggioranza dei francesi. In questa dimensione dove tutto è (o è considerato) brutto, Dumont sviluppa la sua poetica. Che è anzitutto una poetica di reazione, rognosa per dispetto. Al netto di sette lungometraggi, possiamo dire che resiste ancora. Non stiamo parlando di un provocatore punk, tuttavia. Dumont si nutre di letture ambiziose: le filosofie nichiliste, l’esegesi cristiana, lo stoicismo, il polar… Al contempo vi sono nel suo occhio due tendenze all’apparenza di difficile miscela: Pasolini (per la ricca, medievale varietà delle rappresentazioni del male) e Bergman (per la feroce austerità dello sguardo e per l’impossibile afflato religioso). Da buon regista esigente, Bruno Dumont è altresì qualcuno che spesso e volentieri fa sesso attraverso l’obiettivo.

Non diversamente dalla ninfomane Joe di Von Trier, Dumont sembra spingere sul tasto dell’eccesso per riuscire a provare quel brivido – di calore, di passione, di quiete – che una sorta di maledizione psicologica gli impedisce normalmente di avere. In filigrana, la constatazione che soggiace ai suoi pacati affreschi di scopate grugnenti e risse cagnesche è piuttosto evidente: l’idea che tutto sia bello e che si debba avere una prospettiva positiva sulle cose per rendersene conto è una sonora cazzata. Vale piuttosto il contrario: cogliere l’attimo dell’estasi nel bel mezzo di tutto questo necessario orrore è la missione di ciascun essere vivente. Ognuno se la cava come può, ma è soprattutto attraverso l’orgasmo che si annulla questo non-senso della vita.

La Vie de Jésus (1997) è la prima bestemmia di Dumont nel salone del buonpensiero. Atto sessuale consenziente e stupro non sono mai troppo diversi nell’universo di questo regista che filma i suoi brutti esseri umani come animali soggetti a forze naturali e mistiche più forti della loro singola ragione. In tal senso il protagonista di questo film, Frankie, è un ottimo modello: muso ingrugnato, spalle larghe, pelle pallida, capelli corti, occhi piccoli, erezione permanente.

Lombrosianamente, uno stupratore contadino. Difficile scoparselo di buona volontà; serve alcol e disperazione. Le donne ci fan migliore figura: nei suoi primi film Dumont le mostra sempre più attraenti degli uomini ma mai totalmente distaccate da una realtà tangibile, fredda, brutalmente opposta a qualsiasi sofisticazione narrativa.

Severine Caneele, la Domino del suo film successivo, L’humanité (premio della giuria a Cannes nel 1999 e altresì premio all’attrice), è colei che meglio esemplifica questo concetto. Donnone energico e flaccido, spalle da dura lavoratrice e tondo viso malinconico, tette molli, abbondante pelo pubico e ventre pronto a figliare; nessuna idealizzazione del femminino, come si può notare. Domino (così come Marie la fidanzata di Frankie, Barbe o la ragazza senza nome di Hors Satan) la potreste incontrare nel supermercato sotto casa o in fila alla posta. La sfida di Dumont si situa proprio qui. L’impossibile bellezza dell’ «ideale» disfatta e distrutta dalla bruttezza senza pietà del «verosimile».

Come eccitarsi di ciò che abbiamo a portata di mano? Il sesso in Dumont esclude qualsiasi seduzione o sofisticazione intellettuale. L’humanité, film che lo consacra come emulo perverso di Bresson, mette in scena dei coiti che son come lotte fra scimmie, e una dinamica di sguardo/azione a tre angoli che non ha nulla a invidiare a un Hitchcock (si badi, stiamo pur sempre parlando di un polar, e di un polar che si apre sull’immagine della vagina insanguinata di una fanciulla stuprata e uccisa) : il barbaro-bestia penetra la Madonna di periferia che gli offre sì le carni abbondanti ma che al contempo gli nega lo sguardo, dato lascivamente al poliziotto/vergine, idiota benedetto che è come congelato in una stasi di desiderio, completamente sommerso dal male infinito del mondo. Sputi e gloria.

Cinque anni dopo Dumont si ripresenta con Twentynine Palms, sorta di ripresa di Zabriskie Point su sfondo ancor più ermetico. Passo falso. Dumont s’impiastriccia qui in una cosa che evidentemente non riesce a raccontar bene: la seduzione. La lunga schermaglia sudaticcia fra la modella (la compianta Golubeva, musa e compagna dell’altro geniaccio malsano Leos Carax) e il fotografo è una sorta di prologo arty a un porno che non ha mai luogo.

Lasciate le sabbie pop del deserto californiano, Dumont rientra nel suo laido ma ben più confortevole Nord Pas-de-Calais. Flandres (2006) è un’altro premio della giuria a Cannes, il suo secondo. La storia di Barbe e di Dementers, amanti senza futuro separati da una guerra, è l’occasione per il regista d’aprire una seconda fase nella sua carriera. Se la filosofia di fondo e l’implacabilità dello stile restano gli stessi, comincia a cambiare il sentimento delle immagini. Si respira qualcosa del melò. Prima vi erano animali in calore, ora vi sono ominidi che cercano di verbalizzare il loro affetto.

Flandres, nella sua strana e misteriosa densità, resta un punto di svolta. A partire da qui, meno coiti viscidi e figure femminili più eteree. Più religione, inoltre. La mistica cristiana si impossessa di Hadewijch (2009) e Hors Satan (2011). La furia del sesso è trasposta nella ricerca di quel senso d’impossibile, incredibile (nell’accezione di non-credibile) bellezza «presente in tutte le cose». La novizia Hadewijch è talmente ossessionata dall’idea del contatto con Dio che la tortura del proprio corpo le sembra la sola strada da intraprendere. La ragazza senza nome di Hors Satan, creatura panica dei boschi, concentra in sé una tale quantità di dolore e trauma che la sua stessa presenza si fa fantasmagorica. Dieci anni di cinema ma la linea tracciata non devia: a chi è stato violentato dalla bruttezza solo la violenza può dare sentimento.

Camille Claudel 1915 è il vertice di questa seconda fase. Attraverso la figura emblematica di quest’artista divenuta folle per amore e divorata dalla tutela/competizione del suo amante/maestro/mostro, Auguste Rodin, Bruno Dumont descrive per la prima volta le macerie della battaglia amorosa (e quindi anche sessuale). Camille Claudel 1915 prelude a un ritorno alle origini. Dumont riprende fiato. Troppa rarefazione in queste lande abitate da diavoli stupratori e fanciulle insensibili alla ricerca del senso perfetto. Bisogna ritornare alla gravità dello sporco e del banale. Il nuovo progetto è una serie tv Arte, Le Petit Quinquin. Una coppia di ispettori indagano sul corpo a pezzi di una donna infilato nella vagina del cadavere di una vacca…