Wes Craven è morto – in memoriam

Muore uno dei padri del New Horror
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Wes Craven è morto ieri 30 agosto 2015, nella sua casa di Los Angeles, all’età di 76 anni, dopo una lunga lotta con un tumore al cervello. Vogliamo ricordare uno dei padri fondatori del cosiddetto New Horror con questa vecchia ma intrigante intervista risalente al 2000, che realizzammo con lui in occasione di uno speciale dedicatogli sul numero 13 di Nocturno prima serie. La conversazione prendeva le mosse da un progetto che Craven stava seguendo in quel momento, l’adattamento cinematografico del suo romanzo La società degli immortali, che lo avrebbe portato  a staccarsi dal genere horror e che non si realizzò mai. Ma il discorso convergeva poi sulla saga di Scream che allora era arrivata al numero 3 – il quarto e ultimo capitolo sarebbe arrivato solo nel 2011. E, inevitabilmente, il regista rispondeva a domande di ordine generale sulla situazione del cinema horror americano, che in quel momento aveva appena superato le colonne d’Ercole del Terzo Millennio…

Il tuo recente romanzo, La società degli immortali, sarà il soggetto di un film?

Sì, sto scrivendo proprio in queste settimane la sceneggiatura. Dovrei poter cominciare le riprese dall’autunno prossimo.

Voci di corridoio danno per certa la partecipazione di Paul Newman nel ruolo di Frederick Wolfe…

È vero che io ho pensato a lui per quel ruolo. Newman sarebbe perfetto, e poi mi piace l’idea che un attore considerato una specie di eroe nazionale possa rivestire il ruolo di un personaggio malvagio. Sono sicuro che saprebbe rendere benissimo quello che io penso sia, nell’intimo, il dottor Wolfe. Allo stato attuale delle cose però non ci sono stati contatti formali con Paul. Solo dopo la fine della sceneggiatura parleremo di una sua effettiva partecipazione.

Uno dei temi del libro è la “sindrome del complotto”, tipica dell’immaginario americano. Possiamo considerarla un presupposto teorico?

Se definisci “teorico” il punto di partenza per costruire un meccanismo narrativo direi di sì. Anche se rispetto alla produzione di genere – che so, penso a X-files – credo che questa visione del complotto sia diversa, più immersa in una realtà possibile. Nel mio libro alcuni uomini commettono crimini genetici imperdonabili con l’appoggio totale degli apparati governativi. Nel corso degli anni i governi hanno promosso esperimenti di questo genere senza porsi concreti problemi morali: basterebbe pensare alle conseguenze degli studi sul nucleare per rendersi conto di come io abbia solo spostato di pochissimo il confine tra lecito e illecito oggi. Senza contare che la clonazione umana è a un passo dall’essere fattibile. C’è però un’altra chiave di lettura: la sindrome del complotto è diventata un modo semplice per spiegare prima di tutto a noi stessi cose apparentemente inspiegabili. I grandi misteri della nostra società, gli accadimenti irrazionali, le superstizioni dilaganti. Forse gli alieni non esistono, ma se esistono e sono cattivi è colpa del governo federale… Una cosa così. Una sindrome che fa sentire meglio, perché individua sempre e comunque la causa dei tuoi mali, un nemico contro cui puntare il dito.

Mi sembra di capire che non consideri La società degli immortali come un romanzo di pura fantascienza…

Assolutamente no. Credo che la definizione di genetic thriller sia corretta. Non ho pensato agli esperimenti di Wolfe e Peter Jance come cose del tutto e per sempre impossibili, di ‘fantascienza’…

Quando sei sul set tendi a essere severamente fedele alla sceneggiatura?

Per il mio tipo di cinema, lo script è fondamentale. Anche quando è scritto da altri cerco di cogliere lo spirito della storia, il suo significato vero, cerco di farla ‘mia’. Di fronte a sceneggiature “forti” come quelle di Kevin Williamson di Scream e Scream 2, ho cercato di mettermi nell’ottica di un appassionato di horror con qualche anno meno di me e di assecondarne le passioni. Mi piace dimostrare una certa onestà nei confronti del creatore della storia.

Però su Scream 3 hai avuto un controllo maggiore in fase di scrittura…

Diciamo che ho cercato il miglior modo possibile per terminare, in maniera non banale, una serie di grande successo. Williamson non poteva per motivi di tempo collaborare alla realizzazione, io ho in effetti inserito un elemento nuovo rispetto alla sua concezione originaria. Non è un mistero che Scream fosse nato sin dall’inizio come una riflessione sullo slasher seriale. Ma Williamson aveva pensato di chiudere il ciclo tornando a Woodsboro, la cittadina teatro dei primi delitti. Ho scelto io, invece, di concludere con un terzo episodio ambientato sul set di Stab 3, il “film nel film” ispirato agli eventi del primo Scream.

In questo, mi sembrano evidenti le analogie con Nightmare nuovo incubo

Con una sostanziale differenza. Il discorso metafilmico di Nightmare nuovo incubo aveva una duplice funzione. Da una parte volevo riappropriarmi in prima persona del mio personaggio, Freddy Krueger, dall’altra mi sembrava l’unico modo originale per mettere la parola fine alla saga di Nightmare, giunta ormai al settimo episodio. Con Scream 3 ho invece voluto firmare un commiato più definitivo…

Dunque è vero: basta horror…

Nel mio lavoro vige la regola del “mai dire mai”. Tuttavia è vero che sto cercando stimoli altrove, fuori dal cinema del terrore. La società degli immortali dimostra che non voglio tagliare completamente con il genere, ma con l’horror sì. Il mio congedo è tutto nella sequenza finale di Scream 3, quando la protagonista Neve Campbell dopo aver finalmente ucciso il “mostro”, riesce a lasciare aperte le porte di casa senza più alcuna preoccupazione. Neve ha capito cosa volevo dire: anch’io mi sono liberato del mostro, definitivamente…

La trilogia di Scream pone fine all’intero filone dello slasher?

Assolutamente no. Per lo meno, non ha questa presunzione. Magari tra qualche tempo un nuovo film rilancerà il filone. Quando Kevin Williamson presentò gli script di Scream e Scream 2 il genere era già dato per morto e invece… Io però mi faccio da parte, cerco nuove strade. Lascio che sia qualcun altro a ripartire dall’horror…

Esiste una nuova generazione di autori di cinema fantastico?

Forse sì, forse è nascosta in qualche sito Internet. Il fenomeno Blair Witch Project ha dimostrato che l’horror resta il più inesauribile e il più sperimentale tra i generi. Soprattutto, è imprevedibile. Anche gli strateghi delle major non lo controllano mai fino in fondo. Questo perché esiste un pubblico di nicchia, quello che va alle convention e legge Fangoria, che resiste caparbiamente alle mode. È numeroso e fedele alla serie B. Dei blockbuster si stanca molto più velocemente…

Sarebbe possibile rifare oggi film come L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi?

Non credo. Lo dico con rammarico. Ripeto: avrebbero il loro pubblico oggi come agli inizi degli anni Settanta. Purtroppo nessuno in America li distribuirebbe integri perché la MPAA, l’organo di autocensura di Hollywood, li massacrerebbe. Sono film molto violenti, realizzati in un contesto di pura exploitation, e tuttavia credo di avere avuto nei confronti della rappresentazione della morte un atteggiamento onesto, realistico ma mai compiaciuto. È per questo che li considero ancora due ottimi film.

John Carpenter dice che Hollywood accetta la violenza se è prevedibile. Sei d’accordo?

Prevedibile non so. Di sicuro l’accetta se è attraente. Il cinema di genere oggi ama la violenza in quanto elemento glamour. La tratta con compiacimento e la utilizza in modo gratuito. Devo dire che negli anni Novanta un film come Pulp Fiction ha accelerato un processo pericoloso, probabilmente già presente nella società. La violenza viene descritta e accettata come un gioco, quando invece è l’anticamera della morte. Può sembrare paradossale, detto da me, ma io ho cercato di affrancarmi da questa moda. Nei miei film, anche se horror, la morte e il sangue sono cose serie.

Tra i registi di cinema fantastico della tua generazione, quali apprezzi di più?

Beh, più di uno. Ma se dovessi scegliere direi David Cronenberg. Ha avuto la fortuna di andare dritto per la sua strada, di realizzare film inseriti in un progetto forte. Non sono così illuso da pensare che non sia sceso a compromessi con nessuno, ma il fatto di lavorare in Canada, con maggiori libertà rispetto a Hollywood, gli ha permesso di mantenere una notevole autonomia creativa. Non tutti i suoi ultimi film mi sono piaciuti allo stesso modo, ma il suo marchio di fabbrica è sempre distinguibile. Questo è il massimo per un autore.