Umberto Lenzi: Rest in Peace

Scompare un protagonista del cinema bis italiano
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C’era solo un altro regista al mondo che portava occhiali più grandi di quelli di Umberto Lenzi, ed era George A. Romero, anch’egli mancato qualche mese fa, in questo 2017 falcidiante la vecchia guardia. Lenzi. Credo di essere l’ultimo su questa Terra a poter fare il suo elogio. O meglio, a risultare credibile facendo il suo elogio, dato l’altissimo numero di vaffa che ci siamo reciprocamente indirizzati nel corso degli ultimi anni. A causa di acredini che affondavano le radici non ricordo nemmeno più in che cosa. E comunque, Manlio Gomarasca lo aveva intervistato nel 2013 o 14 per I Tarantiniani, documentario poi vincitore di un Nastro d’argento, mica una featurette a corredo di Mangiati vivi! E credo sia stata l’ultima volta in cui si sono visti e parlati, fumando il calumet della pace. Io con Lenzi ci ebbi a che fare, de visu e anche de auditu, l’ultima volta, nel 2010: era venuto a Milano portato dai Bloodbuster per presentare qualcosa e avremmo dovuto fare insieme un audiocommentary, in diretta, di L’ uomo della strada fa giustizia, mi pare, o di un altro dei polizieschi di quel periodo. E lui non volle, si comportò da stronzo. Ora che ci penso e focalizzo, fu lì che cominciammo a odiarci…

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Anzi, a ri-odiarci, perché già all’inizio dei tempi, in quel 1994 da cui ci separano oggi la bellezza di ventitre anni, ero entrato in frizione con lui per via di un articolo scritto su Nocturno fanzine che gli era venuto sotto gli occhi – riguardava uno dei Monnezza – e lo aveva fatto incazzare (con il tempo e la pazienza potrei ritrovare il passaggio preciso del pezzo): tanto che mi bollò, in una lettera inviata a Nocturno, come un “Tullio Kezich dei poveri”. Peraltro, il vero Kezich, quello dei ricchi, non doveva essere un critico che Lenzi disprezzava, dal momento che, all’epoca, Kezich scrisse una mega-recensione a proposito di Incubo sulla città contaminata che si avvicinava al peana – quella malalingua di Fulci sosteneva che siccome Claudio Carabba aveva incensato lui, Fulci, Kezich, in risposta, “si era inventato” Lenzi. Comunque, Incubo è obiettivamente il film che Tarantino e quelli del suo clan riconoscono come iniziatore della moda degli zombi (pardon: dei leucemici) corridori, quindi tanto di cappello all’antesignano di Boyle e di Snyder.

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Dopodiché accadde un fatto che ristabilì una certa armonia tra noi: nel numero 4 “rosa”, il primo a stampa e l’ultimo modello fanzine, anno 1996, recensii Da Corleone a Brooklyn dicendo, tra le altre cose, che sembrava il prototipo di Palermo Milano: solo andata, che in quel momento andava forte al box office. Lenzi portò il ritaglio del giornale al produttore del film di Fragasso, Innocenzi, e poi mi scrisse una lettera ringraziando ed elogiando. Sapevamo, giunti a quel punto, che c’erano cose che non bisognava mai domandargli, prima tra tutte dei suoi film sui cannibali, che allora, nominargli, era come nominare il Diavolo al Papa. Daniele Aramu, che poi entrò nella compagine nocturniana e che era un cannibal-addict al limite dello squilibrio, fece due telefonate in una, a Lenzi: la prima e l’ultima. Dopo essersi preso, pure lui, una sfilza di vaffanculo come fossero tram.

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Ma lì eravamo ormai intorno al 2000 e cominciava un lungo periodo di buona tra noi e Umberto. Tant’è che Gomarasca gli fece la più lunga e dettagliata intervista che mai sia apparsa al mondo, distribuita in tre libretti acclusi ai Nocturno numero 17, 18 e 19 della seconda serie. Tutto quello che Lenzi poteva raccontare, lì lo ha raccontato. Fu e resta l’hashtag “definitivo” sul capitolo interviste lenziane. Lo avevamo anche incontrato di persona, a casa sua, con la moglie Olga, credo nel 1997. Ed era stato uno degli ospiti, insieme a Barbara Bouchet e a Zora Kerowa, del primo e unico Nocturno Film Festival di Bologna, nell’autunno del 1999. Da lì in avanti ci sarebbero state varie occasioni di avvicinamento. Una delle più piacevoli fu a Gradara, per una delle puntate del festival Gentedirispetto

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Lenzi era esattamente la persona che si vedeva, che si sentiva parlare in quel modo. Non fingeva di essere qualcun altro, qualcos’altro. E di ciò gliene va reso merito, prima ancora che di essere stato il regista che in Italia ha dato la possibilità ad attori come Tomas Milian e Maurizio Merli di girare i loro film migliori, quelli che li hanno portati verso il loro compimento ideale. Aveva una cultura cinefila vasta e di prima mano, ma, girando, ho sempre avuto l’impressione che si affidasse potentemente all’istinto: non stava mai troppo a mediare con i riferimenti e le citazioni colte. Era diretto come sono diretti, di conseguenza, i suoi film, che zoomano metaforicamente oltre che fisicamente, in modo violentissimo, dentro l’azione e dentro i particolari più forti ed emotivamente pregnanti di un racconto. Non gli si leva proprio nulla a dire che è stato un regista più incline all’uso della mazza che del fioretto, perché nei generi in cui più si è distinto, con in cima il poliziesco-noir, quello era il linguaggio e quelli erano gli stilemi che permettevano ai film di arrivare a bersaglio. Riposa in pace, Umberto. Amen