Torture Porn

Hanno coniato la definizione i critici americani, dopo il successo del ciclo dei Saw degli Hostel. L’infanzia, l’adolescenza, la maturità e infine la decadenza del cinema atroce per le masse.
Featured Image

Nel novembre del 2006 davamo alle stampe il Dossier 2000 Incubi in cui tracciavamo, giocando d’anticipo, le ramificazioni del nuovo cinema dell’orrore all’interno della società americana. Partivamo da una considerazione tanto lampante quanto rivoluzionaria: la New wave dell’horror americano aveva riscoperto nuova linfa e cattiveria dopo gli avvenimenti di quel fatidico 11 settembre.

Come già successo in altre epoche storiche (ad esempio l’ormai constatata influenza della guerra del Vietnam sullo sviluppo del cinema slasher), un clima di estrema tensione sociale ha portato alla nascita di una nuova cinematografia che, abbandonate le confortanti atmosfere dell’orrore soporifero degli anni ‘90, ha riscoperto una ferocia e una violenza fino allora celate. Da questa semplice constatazione, ormai palesemente riconosciuta un po’ ovunque anche su Internet, si è sentita la necessità di appioppare la solita limitante etichetta a questo sottogenere (ma è giusto definirlo così?) dell’horror. I vocaboli individuati furono “torture porn” o “gorno”, ma c’è anche chi preferì definirli “gorenography-films” e chi, come il critico Alan Jones, coniò il termine “splat-pack” per raggruppare sotto un’unica bandiera quei registi che sono (secondo lui) stati profeti del nuovo trend. Inutile dire che, come tutte le etichette, anche queste erano alquanto approssimative e insoddisfacenti nel descrivere un fenomeno estremamente mutevole.

Il termine torture porn l’ha tirato fuori dal cilindro il critico del New York Magazine, David Edelstein, a proposito di Hostel (2006), in un articolo in cui si interrogava sul futuro del cinema horror e constatava che la violenza espressa in certe pellicole (Hostel per l’appunto) era talmente grafica e insistita da ricordare “gutbucket italiana cannibal pictures” come Cannibal Ferox. Quello che Edelstein voleva (giustamente) sottolineare era che, una volta, questi film venivano relegati alle sole grindhouse sulla 42esima strada mentre oggi sono accessibili all’interno di un qualsiasi Multiplex; e che mentre le pellicole di Lenzi & co. in America arrivavano attraverso scalcinate distribuzioni indipendenti, ai giorni nostri è la stessa industria mainstream americana a partorirli. Insomma, si può dire che il cinema estremo di oggi non necessariamente è più scioccante di quello di trent’anni fa, ma sono drasticamente cambiati i propositi e i meccanismi produttivi e distributivi. Osservazione non banale. Cioè, mentre una volta i guilty pleasure venivano spacciati attraverso canali divulgativi a loro più affini (appunto “piaceri proibiti” destinati a visioni “scomode” e di non immediata fruizione), oggi è la stessa mecca del cinema a sdoganarli in pompa magna, con buona pace di Quentin Tarantino e Eli Roth che se la ghignavano con la stampa vantandosi di aver concepito il film più fottutamente horror e disgustoso degli ultimi anni (salvo essere poi bastonati al botteghino sia con Hostel II che con Grindhouse).

Torniamo al “torture porn”. Capire il perché una definizione simile venisse coniata per Hostel è di immediata intuizione. Una volta preso atto che con “porn” (= porno) si intende una visione “gratuita” (della violenza e non del sesso), che non lascia margini alla fantasia ma che altresì mostra nel dettaglio (ginecologico) ogni lacerazione che il corpo subisce, e non la rappresentazione dell’atto sessuale esplicito del cinema hard-core, e che con “torture” si vuol indicare non tanto la tortura in senso lato ma più che altro l’intento efferato di provocare una morte il più possibile sadica e dolorosa alla vittima, ecco che altrettanto facilmente si può capire perché il termine avesse finito per comprendere anche quei film che non hanno proprio nulla a che vedere con la tortura (The Descent, tanto per citarne uno…).
Tutto questo spiega l’intento ma non il genere. Su Internet, una volta creato lo slogan (grazie al buon Edelstein), tutti hanno voluto dire la loro, cercando di compilare improbabili liste di cosa o no facesse parte del “torture porn”. Non solo, anche “ospiti” illustri come Stephen King e Josh Whedon parlarono senza (forse) aver compreso fino in fondo l’argomento. Per Whedon il “torture porn” era qualcosa di volgare, per King, invece, anche da qualcosa di volgare può prender forma un’opera d’arte. Tutte posizioni rispettabili, per l’amor di Dio, della Madonna e di tutti i Santi, ma quali erano i film che facevano parte del “torture porn” e perché? Dilemma.

Allora, sicuramente i due Hostel e del resto anche i Saw (e Saw era uscito prima di Hostel), ma qui è facile: ci sono le torture. Anche quella cinghialata di Captivity (2007) veniva facilmente ascritto al genere. Del resto, il film si apre con un uomo legato a un tavolo che viene completamente ingessato dall’assassino di turno che gli sostituisce il sangue con un non meglio identificato liquido (acido?) per poi fracassargli la testa con un martello. Immagine potente, non c’è che dire. Peccato però che il film di Roland Joffé si concentri poi su torture di ben altro tipo: sull’abbattimento psicologico della fotomodella Elisha Cutberth costretta come un topo in gabbia nelle segrete del serial killer. Niente più sangue, niente più prevaricazioni fisiche. Bastava quindi una sola scena a decretare l’appartenenza della pellicola al genere? Evidentemente sì, come dimostra anche Il nome del mio assassino (I Know Who Killed Me, 2007), il non proprio riuscito secondo film di Chris Sivertson (compagno di merende di Lucky McKee che aveva fatto ben sperare con la pellicola d’esordio, Lost), in cui alla povera Lindsay Lohan amputano un braccio e una gamba utilizzando del ghiaccio secco per strapparle le carni e bluastri bisturi acuminati per segarle le ossa (niente, in confronto al culo che le avrebbe fatto la polizia qualche mese dopo avendola beccata ubriaca fradicia al volante della sua macchina). Anche in questo caso, però, la storia poi prende tutt’altra direzione e si impantana in un’improbabile manfrina sulla doppia personalità e i gemelli siamesi che provano le stesse sensazioni (come le sorelline di Il falcone che raggiungevano l’orgasmo all’unisono quando venivano penetrate da un uomo anche a chilometri di distanza). E va bene, però qui c’è di mezzo la tortura e quindi siamo tutti d’accordo.

Non era difficile inserire nel genere anche lo strepitoso La casa del diavolo (The Devil’s Reject – 2005) di Rob Zombie. Non è che quelli della famiglia Firefly fossero proprio dei “supplizianti” come i riccastri di Hostel, ma sicuramente sapevano come infliggere sofferenza al prossimo; come nella disturbante sequenza del motel dove tra umiliazioni sessuali e gustose sottomissioni psicologiche ne combinavano di tutti i colori. Del resto, la dice bene Otis prima di massacrare i due musicisti country nella prateria: «I’m the Devil and I’m Here to Do the Devil’s Work». Uno che aveva molto da dire sul tema era Uwe Boll. Tristemente famoso per porcate clamorose del calibro di House of the Dead & Alone in the Dark, il buon Uwe si sentì in dovere (parole sue) di “cimentarsi con un film dell’orrore vero”… uno di quelli che danno fastidio, tanto per capirci. Il risultato fu Seed (2007), cagatona geniale in cui un serial killer dal volto celato sotto un sacco di juta prima si sollazza guardando cani fracassati in televisione (basta prendersela con il solito Deodato!) e poi si sfoga su poveri dementi selezionati a caso. Lega una vecchia a una sedia e con un martelletto comincia a colpirla sulla testa piano piano e poi sempre più forte finché del crapino della poverella non resta che una rossa e sgocciolante massa informe attaccata al collo. Non male vero? Ma non è finita.. L’hobby preferito dello psicopatico è quello di rinchiudere animali, ragazzine e poppanti in umide cantine e lasciarli morire di fame mentre vengono ripresi dalle telecamere a circuito chiuso. Si era dalle parti di Saw, ma senza la benché minima ironia. Difficile dire se la sconsolante fattura del prodotto (molto alla Derrick) fosse un limite per la pellicola o una cassa di risonanza per le atrocità messe in scena.