Senza alcuna pietà

Torna la coppia culto di Drive. l’attore del momento Ryan Gosling e il regista Nicolas Winding Refn firmano il film più atteso dell’anno
Featured Image

Voi ancora non lo sapete, ma Nicolas Winding Refn è il regista più importante del nuovo millennio. Il suo è un cinema libero, emozionale, incredibilmente di pancia che non ha paura di esplorare quei luoghi oscuri da cui, di solito, non c’è né ritorno né redenzione. Quel tipo di cinema che Tarantino vorrebbe tanto fare ma non può o non sa fare. Perché in fondo Tarantino ha fatto sempre e solo commedie. Nei suoi film non ci si prende mai sul serio e alla fine non riesci davvero a patire per la sorte delle pedine messe in campo. Ci si diverte, per l’amor di Dio, ed è pur sempre un grande spettacolo per grandi e piccini, pirotecnico, concitato, genialmente scritto, ma… Ma manca qualcosa, manca l’empatia per i personaggi, per quelle figure dannate e perse di cui era pregno il cinema al quale Tarantino stesso dice di ispirarsi.

Prendete lo spaghetti western, per esempio, pensate a un personaggio come quello del muto interpretato da Jean-Louis Trintignant in Il grande silenzio (1968) ­– vero capolavoro di Corbucci, altro che Django. Quello sì che era un uomo condannato a un destino implacabile, non il Jamie Foxx che fa il balletto sul cavallo. Il cinema di Tarantino è cinema per la massa che mette (quasi) tutti d’accordo ed è giusto che ci sia, ma qualche volta si sente il bisogno di scoprire qualcosa che vada in una direzione completamente diversa, qualcosa che ti conduca in territori meno “sicuri”, in cui Bene e Male si mescolano continuamente in un affresco di desolante condizione umana. Il tutto senza perdere però di vista il gusto epico ed exploitation della narrazione. Perché Winding Refn è esattamente questo, un autore con la maiuscola che ha il pallino del genere; l’incarnazione di quella coscienza cinematografica, molto francese e (forse) anche un po’ danese, che nega drasticamente una demarcazione netta tra cinema alto e cinema basso.

 

QUALCHE NOIOSA NOZIONE STORIOGRAFICA

Leggenda vuole che quando quelli della Gaumont chiamarono Nicolas Winding Refn nei loro uffici per proporgli un nuovo film dopo l’exploit di Bronson (2008), il regista danese disse: «Se raddoppiate il budget che mi state offrendo, invece che un film, ve ne faccio tre!». Come dire, prendi tre e paghi due, un’occasione imperdibile. Non se ne pentirono, visto che il primo film di questa “trilogia impossibile”, Valhalla Rising – Regno di sangue (2009), si trasformò immediatamente in una super-hit al botteghino francese. Subito dopo, però, Nicolas fu chiamato dagli americani a dirigere un film non scritto da lui (anche se gran parte della sceneggiatura che Hossein Amini aveva tratto dal romanzo di James Sallis fu ampiamente risistemata in fase di realizzazione). Con Drive (2011) successe qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato. Fu uno tsunami. Fino ad allora la carriera di Winding Refn era stata quasi tutta in discesa. Un esordio folgorante, Pusher (1996), che vanta a oggi già due remake, un secondo film di buona tenuta, Bleeder (1999), che ingiustamente si tende spesso a dimenticare, e un primo grosso scivolone, Fear X (2003).

Il film con John Turturro, il primo con capitali americani, può essere visto, col senno di poi, un dazio necessario da pagare per la definitiva consacrazione. Un dazio da pagare principalmente con se stesso. L’insuccesso del film costrinse Winding Refn a tornare sui suoi passi, a guardarsi dentro e ad abbandonare velleità dichiaratamente autoriali. Fu da quel momento che decise di dedicarsi a quello che veramente lo appassionava, il cinema di genere, la violenza e gli sconfitti. Il resto è storia. Nicolas ritornò alle origini, completò la saga di Pusher – raro esempio di una trilogia dove il capitolo migliore è il terzo, anziché il secondo – e poi vennero Bronson e il contratto con la Gaumont. Il successo di Drive (miglior regia a Cannes), obbligò quelli della Gaumont a rivedere in qualche modo il budget del secondo film, anche perché era fondamentale ricompattare la coppia vincente Winding Refn e Ryan Gosling, che nel frattempo aveva fatto parecchia strada nello showbiz americano, proponendo quasi sempre lo stesso personaggio di bello, dannato e parecchio imbronciato di Drive. Basti guardare l’Alex di Come un tuono (The Place Beyond the Pines, 2013) per capire ciò che intendo.

 

DIO NON PERDONA E NEANCHE IO

E così arriviamo a oggi, a Only God Forgives o, anzi, meglio, a Solo Dio perdona che fa più spaghetti western. Dopo i vichinghi esoterici di Valhalla Rising, Winding Refn aveva scritto una storia che nelle sue intenzioni doveva essere una sorta di western in salsa thai. Anche lui, come tanti ormai, si era scoperto estimatore di Corbucci & co. e, mentre metteva nero su bianco uno spunto per una storia di vendetta che gli frullava per il cervello da un po’, pensava esattamente a quel senso di perdizione che era proprio della cinematografia di quei tempi, una cinematografia capace ancora di graffiare. Niente sorrisetti beffardi né strizzatine d’occhio al pubblico cinefilo che ama giocare col genere, ma solo la voglia di riesumare un sentimento che da troppo tempo si era perduto.

Naturalmente il tutto adattato a quella cifra stilistica che nel corso degli anni è andato a sviluppare e che solo in certi casi limite può essere paragonata alla visione immaginifica di David Lynch. Sono momenti, anzi immagini “surreali”, che compongono un quadro narrativo che va molto al di là della semplice scrittura. Solo Dio perdona racconta la storia di due fratelli che gestiscono una palestra di box a Bangkok, che altro non è se non un’agile copertura per il traffico di droga. Sono figure agli antipodi ­– uno sadico e violento, che adora picchiare indifese prostitute minorenni fino alla morte, l’altro taciturno e introspettivo, che con le prostitute vive un triste rapporto di non-soddisfazione sessuale ­–,  ma sono anche lo specchio deforme della comune disperazione che alberga in tutti i personaggi del cinema di Winding Refn. Non solo.

Only God Forgives è anche la storia di un vecchio poliziotto thailandese che non può più chiudere gli occhi di fronte alla violenza e all’ingiustizia dilagante e che crede ferocemente nell’occhio per occhio, dente per dente. Ma il sangue chiama sangue e Solo Dio perdona è, infine, anche la storia di una madre-padrona – la straordinaria Kristin Scott Thomas – che, dopo aver soddisfatto la propria sete di potere, ha bisogno di placare anche quella della vendetta per continuare a dare uno scopo all’esistenza. Tre storie per un solo dramma, che Refn porta sullo schermo in maniera naïf, scandagliando, come sempre, il male di vivere che affligge i personaggi senza voler dare però un qualsiasi giudizio morale. Questa è probabilmente la vera lezione da imparare del suo modo di intendere il cinema e che ritorna puntualmente fin dai tempi di Pusher. E se Drive ha rappresentato un punto di non ritorno verso la notorietà per un autore che stava lentamente costruendo il proprio percorso in un’industria che non aveva più niente da dire, bisognerà vedere come il pubblico reagirà a quello che è già stato definito lo scandalo del prossimo Festival di Cannes. Una cosa è certa, Solo Dio perdona non piacerà a tutti, c’è chi lo amerà alla follia e chi lo detesterà come era già successo con Drive e gli altri, ma non è importante, perché l’opera di Nicolas Winding Refn non è merce di facile e veloce consumo né tantomeno intrattenimento rassicurante per il pubblico dei multiplex. Farà discutere, c’è poco da dire, ma è un bene…