Saffo dietro le sbarre

Quella volta che Rino Di Silvestro girò il suo wip, Diario segreto da un carcere femminile
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Come il contemporaneo decamerotico, anche il carcerario fu il filone dell’unità d’Italia. Ogni regione, tramite ogni dialetto dello Stivale, vi era democraticamente rappresentata. Nel film di Rino Di Silvestro, Diario segreto da un carcere femminile, questa peculiarità raggiunge un livello massimo, diventa teorizzazione, programma. Dietro le sbarre troviamo la milanese, la bolognese, la calabrese, la romana, la napoletana, la torinese, la siciliana, che incrociano con le caratteristiche psicologiche della disincantata, della timida, della beghina, della lussuriosa, della lesbica, della maniaca (incendiaria, affidata ai mezzi di Bedy Moratti), della mafiosa, della remissiva. Ogni donna è una regione, una città, ed è un carattere: come nel teatro delle maschere. Si sottrae alla regola l’eroina, l’augusta Anita Strindberg, la quale non ha alcun background dialettale e anche psicologicamente è neutra, come la sua faccia, come il suo corpo perfetto, espanso dal silicone. Immaginata, a sprezzo del verosimile, come figlia di un mafioso – una svedesona alta un metro e novanta con gli occhi blu – il quale avrebbe truffato una gang facendo sparire un carico di droga, la Strindberg si fa incarcerare apposta per entrare in contatto con una ragazzina che sa cosa c’è, in realtà, dietro al furto. L’intrigo poliziesco è al livello di un Viola del momento, e mentre la protagonista indaga dietro le sbarre per scagionare il padre, quello l’hanno già bell’e che ammazzato i suoi compari.

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La ragazzina è Jenny Tamburi e sui titoli di testa la vediamo subito subire il rito iniziatico dell’ingresso in prigione: prima le impronte, prese da un brusco secondino che el parla milanes, e poi un’ispezione rettale e vaginale da parte della capo guardiana Olga Bisera, i capelli raccolti in un severissimo chignon, gonna sotto al ginocchio, un bel viso duro da virago. La Bisera coltiva amori particolari con la detenuta Jane Avril, e di notte, col favore del silenzio, levatasi la maschera da crudele va a trovarla, sdilinquendosi, nella sua cella. La situazione favorisce la sequenza più hard del film, un rapporto lesbico in cui soprattutto la splendida Bisera, col capello finalmente sciolto insieme al pudore, si scatena. In Italia, però, la scena non si è mai vista. «Un ruolo come questo poteva essere un’occasione. Camuffavo la mia fisicità e presi anche un premio a Taormina, premio simpatia credo. Diario segreto da un carcere femminile fu un film dove fui evidenziata e notata. La Musiani che scriveva per Paese Sera, ed era una Cosulich dell’epoca, molto dura, disse nella critica: “Olga Bisera andava dicendo che è un’attrice vera e propria e si vede, in questo film, che ha ragioni da vendere’…» (Olga Bisera). La Avril, alias Maria Pia Luzi, dice invece che il film lo ricorda malvolentieri e lo girò solo per fare un dispetto a suo marito, Alberto Cavallone.

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«Ero stanco di fare lo scrittore fantasma, di scrivere per gli altri, anche se finanziariamente stavo benissimo, alloggiavo all’hotel Plaza. Così scrissi Diario segreto da un carcere femminile. Portai la sceneggiatura da un distributore che curava i regionali alla Medusa. Fu letta e dissero: “Andiamo in galera!”. Con l’aiuto di un mio amico, riuscii a trovare i fondi. Fondammo una società. Casa mia divenne la sede legale. Andai alla De Paolis e bloccai tutti gli elementi per ricostruire il carcere. Poi lo girai tutto lì, nel cortile. L’ambientazione è molto convincente, tant’è che il presidente della commissione di censura mi chiese: “Ma questo carcere dove sta?’…” (Di Silvestro). Eliminata la cornice mafiologica che sembra uscita da un brutto spy-movie del decennio precedente (c’è anche Roger Browne), il film di Di Silvestro vale la pena di essere visto. Ha buona tempra drammatica, il pathos va anche aldilà delle truculenze di prammatica – benché le docce, le lotte tra detenute, i letti di contenzione, il sesso diverso, i soprusi, le sedizioni sedate a colpi di idrante e quant’altro non sembrino ancora maniera – e la recitazione non resta solo nei voti. Vero è che con un harem come quello messo insieme, era impossibile sbagliare film: Strindberg, Eva Czemerys (una delle migliori), Tamburi, Margareth Rose Keil, Valeria Fabrizi, Moratti, Paola Senatore, (bellissima, che fa la compagna della Czemerys e ha una scena d’amore in branda con lei, assai morbosa e anch’essa invisibile in Italia), Cristina Gaioni, Gabriella Giorgelli, Annie Karol Edel e Rosita Torosh, una lesbica che scambia battute memorabili, sotto la doccia, con la squillo svedese Rose Keil: «Ma te l’hai mai fatto l’amore con una donna?»; «Anche con tre»; «Allora ci faremo buona compagnia… Sarà tutto un viavai di scambi culturali con i paesi bassi».

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«La sessualità in carcere è una spinta vitale. Io sono cattolico, ma per me la carne e lo spirito sono la stessa cosa» proclamava Di Silvestro e girava di conseguenza, andandoci pesante con le sequenze sia omo sia etero, una delle quali lo impegna di persona (è il proiezionista). La copia italiana in vhs è molto morigerata. In America, il film, rimontato dal distributore Terry Levine, lascia invece tutto intatto. Ma dell’altro materiale aggiuntivo, extra-strong, esisteva e le foto di scena lo documentano bene. In censura, comunque, pretesero che venissero tagliate tutte le scene lesbo, salvo le immagini incipitarie che fossero sufficienti a rendere l’idea della problematica dell’amore omosex dietro le sbarre. Pensa te…