Quattro mosche di velluto grigio

Tutto quello che avreste voluto sapere su Quattro mosche di velluto grigio
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Nel maggio del 1971, Dario Argento soggiorna in un albergo sul mare, al 156mo chilometro della via Aurelia. Si è rinchiuso lì, insieme alla moglie, Marisa, e alla figlioletta di due anni, Fiore, per scrivere la sceneggiatura del suo terzo thriller, Quattro mosche di velluto grigio. Marisa dice di non sapere niente della storia: «L’unico particolare che conosco è che il film comincerà dalla fine», dichiara a un giornalista di Gente che la intervista; e aggiunge: «Dario mi ha detto che dopo questo film lascerà il cinema. Si è stancato anche di questo ambiente. Intende mettersi a scrivere canzoni, perché dice che la canzone è la poesia moderna, una delle tre più importanti forme d’arte del mondo di oggi, insieme alla musica pop e al cinema. Non mi stupirei, dunque, di vedere tra qualche mese mio marito diventare autore di canzonette di successo…». Di lì a qualche mese Argento non finì a scrivere canzonette, ma in compenso si consumò la frattura, culminata nel divorzio, tra il regista e la sua compagna. In Quattro mosche... la situazione di crisi sentimentale che Argento stava vivendo in quel periodo è riflessa chiaramente; ridotta ai minimi termini, la storia del film è quella dell’incomunicabilità tra marito e moglie di una giovane coppia, i quali scoprono di non conoscere realmente nulla l’uno dell’altra. Il regista ha ammesso che la materia fosse autobiografica, “stemperata” tuttavia nella narrazione in maniera tale da lasciarne semplicemente il “sapore”. Ma è un fatto che per i due protagonisti principali Dario abbia scelto un attore e un attrice che anche fisicamente richiamassero lui stesso e la moglie Marisa: l’americano Michael Brandon (preso dopo che avevano dato forfait James Taylor, Terence Stamp e Michael York) e Mimsy Farmer (che fu ugualmente una scelta di ripiego), della quale le cronache del set ricordano l’impressionante somiglianza con l’allora signora Argento. Nel film c’è anche Marisa Fabbri la cui morte è stata tratta pari pari da L’alibi nero di Cornel Woolrich.

Quattro mosche di velluto grigio è per ammissione dello stesso suo autore un film “esasperato”: molti dei presupposti che avevano governato i due precedenti capitoli della trilogia “zoologica” si dilatano, a partire dal carattere composito delle locations, alla ricerca di quell’urbanistica oniricamente reinventata che trova il suo apice in Profondo Rosso e che stavolta mescola parti di Milano (la metropolitana), Roma, Torino, squarci dell’Umbria e dell’Africa: «Mi incantano gli inviti magici della realtà, una lampada notturna in un vicolo silenzioso di Algeri, una stradina deserta vicino a Spoleto, i muri slabbrati della periferia torinese…». Per certi versi, Quattro mosche… può considerarsi il papà di Profondo rosso, nel senso che la prima stesura del film doveva trattare di telepatia. Una delle sequenze eliminate, quella della seduta spiritica nel teatro, è finita appunto in Profondo rosso. Argento ha riscritto interamente il copione quando Mario Foglietti (uno dei due cosceneggiatori insieme a Luigi Cozzi, giornalista di Ciao 2001, folgorato sulla via di Damasco dalla visione di L’uccello dalle piume di cristallo) gli ha suggerito l’idea di un uomo che viene fotografato mentre commette un omicidio.

L’ ”esasperazione” della terza pellicola diretta da Argento, va anche nel senso della tecnica: «Ho cercato di ottenere il massimo dell’inventiva utilizzando i macchinari più strani. All’epoca si sperimentava quella che oggi è la steadycam. Cercavo di ottenere riprese fluide, per cui provai un sistema in cui la macchina da presa era rinchiusa dentro una specie di palla appesa a un filo che ne avrebbe dovuto ammortizzare i movimenti. Purtroppo era un sistema complicato e ingombrante, per cui potevamo utilizzarlo solo in esterno […]». È nell’epilogo del film che Argento si lancia nello sperimentalismo più sfrenato, ricorrendo per la scena dell’incidente d’auto di Mimsy Farmer a una macchina da presa tedesca, chiamata Pentazet e recuperata presso l’Università di Lipsia: «Era l’unica macchina al mondo a raggiungere una velocità di ripresa di 30.000 fotogrammi al secondo. […]. Era un macchinario stranissimo, dotato di un contenitore d’olio nel quale veniva immersa la pellicola in modo da evitare che quest’ultima si fondesse a causa della velocità. Il risultato finale è una splendida e fluidissima sequenza al rallentatore».