Quando Rita prese il fucile…

Intervista a Rita Abela, protagonista di Il mio corpo vi seppellirà

Rita Abela, attrice siracusana di lungo corso nel teatro, è una delle quattro terribili protagoniste, combattenti e assetate di vendetta, del nuovo western borbonico Il mio corpo vi seppellirà, diretto da  Giovanni La Pàrola, che promette e mantiene tantissima azione, un alto livello di spettacolarità. E tantissimo sangue…  

Rita, come film di debutto hai lavorato con Pupi Avati, nelle Nozze di Laura

Sì, è esatto. In realtà, la mia avventura con la recitazione è iniziata prestissimo,perché io vivo sulle tavole del palcoscenico, in teatro, da quando avevo 12 anni. Poi, crescendo, è diventato il mio lavoro. Ma sono stata fortunata, perché ho capito prestissimo qual era la direzione che volevo dare alla mia vita. Ovvero: fare l’attrice. Poi sono arrivati i primi spettacoli da professionista, e quindi le prime esperienze davanti alla macchina da presa, tra cui, sicuramente, quella con Pupi Avati è stata illuminante, perché lui mi ha davvero insegnato tantissimo, proprio del linguaggio cinematografico, che è una cosa completamente diversa rispetto al teatro.

Ecco, l’estrazione teatrale d’origine e l’impatto con il cinema…

Dal mio punto di vista, quello che cambia è proprio la tecnica recitativa. Si tratta di un linguaggio diverso. O meglio: è come se tu stessi parlando di una stessa materia usando una lingua diversa. A me piace moltissimo questo tipo di lavoro in sottrazione, anche perché tutto il mio background teatrale me lo porto dietro. Parlo della metodologia di studio dei personaggi: io sono meticolosissima, studio per settimane, mesi, mi preparo, perché mi piace moltissimo approfondire tutto di quel personaggio. Il contesto storico, l’ambiente in cui si muove, perché pronuncia questa battuta piuttosto di un’altra. Sono meticolosa ai limiti della pedanteria (ride), però per me è importante: mi costruisco addirittura tutto un passato del personaggio e se non è raccontato nella storia, me lo ricostruisco io, ma proprio per legittimare alcune azioni. Cerco di trovare l’autenticità di un personaggio e di restituirlo al pubblico. E perché questo succeda, devi conoscere a fondo il tuo personaggio.

Un approccio tipico del “Metodo”…

Guarda, credo sia fondamentale, un attore non può essere solo un ripetitore di battute. Si tratta anche di dare un peso al nostro essere lì. Quindi, se io sono stata scelta per quel ruolo e quindi divento “strumento di scena”, mi metto a disposizione, della scena, della regia, dei colleghi e della storia, allora ho anche il dovere di mettere qualcosa di mio. L’autenticità la definisce il singolo interprete.

Sul set cinematografico non vivi un’azione in diretta, come a teatro, ci sono un sacco di tempi morti, di attese. Cambia quindi anche l’approccio mentale a un sistema differente…  

Secondo me è una questione di allenamento alla concentrazione. Quando costruisci uno spettacolo teatrale, tu stai lì otto ore, a volte anche di più, davvero a costruire qualcosa. Questo tipo di approccio lo conosco e, dopo tanti anni, posso dire di averne una buona dimestichezza. Sì, forse in cinema sono un po’ stancanti le attese nel camerino, perché magari carichi una tensione legata a una scena e devi poi aspettare prima di continuare. Però non l’ho trovata una grande difficoltà. La questione è sempre la capacità di rimanere concentrati in quello che si sta facendo. E poi, un aspetto positivo che mi porto dal teatro, è la capacità di replica. Quando tu vai in giro con uno spettacolo teatrale per molti mesi, se fai duecento repliche l’anno, è chiaro che hai un allenamento alla ripetizione. Questo me lo hanno insegnato anche i grandi con i quali ho lavorato: non è che il pubblico dell’ultima replica sia meno importante del pubblico del debutto. Ci vuole un’onestà, un’etica professionale, un’onesta intellettuale in questo, nell’essere sempre al meglio. Per cui, devi mantenere lo stesso tipo di rigore e di concentrazione fino alla fine di una tournée. Fino alla duecentesima replica. E questo è un grandissimo valore aggiunto che mi porto anche sul set, perché, se una scena dobbiamo ripeterla anche venti volte, per me non è affatto un problema.

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Parliamo allora di Il mio corpo vi seppellirà, il tuo nuovo film, che promette di fare scintille. Un “western garibaldino”, estremamente violento e cruento… 

Hai detto bene, perché il regista stesso, Giovanni La Pàrola, lo definisce “un western borbonico”, perché è ambientato nel Sud Italia durante il Regno delle Due Sicilie, intorno al 1870. In quel contesto storico, nel Sud Italia cesistevano bande di briganti che facevano la resistenza. Questa è storia. La storia che è stata poco raccontata, invece, è quella della resistenza al femminile. Ed è interessante anche per questo, perché si tratta di un argomento inedito.

Quindi, si parla di brigante, al femminile, brigantesse…

Esatto. Brigante, che venivano definite “Drude”. Nel film siamo quattro donne, abbastanza incredibili, che hanno interiorizzato un desiderio di vendetta. Vendetta, però, intesa non come la intendiamo oggi, ma nel senso più nobile della parola. Perché, etimologicamente, “vendicarsi” vuole dire “liberarsi”. E loro desiderano liberarsi, perché è solo liberandosi, dall’oppressore, in questo caso, pur non essendo state ancora catturate, che riusciranno a riappropriarsi della loro identità. E questo diventa possibile grazie a un sentimento profondo di sorellanza che le lega tra loro. Una cosa che per quanto mi riguarda ho trovato, a tratti, anche commovente. E devo dire che sul set si è creato tra noi un legame forte in questo senso.

Le altre tre Drude, oltre a te, sono Miriam Dalmazio, Margareth Madè e Antonia Truppo. Quindi, immagino ci sia molta azione, movimento, sparatorie. Ho visto nel trailer che montate a cavallo…

Il capitolo “cavallo è interessante (ride). Avevo molta paura di questa cosa, ma per un motivo. Essendo abituata, come ti spiegavo prima, a studiare tantissimo per i personaggi e a prepararmi, avevo iniziato a prendere lezioni per andare a cavallo, ma per i fatti miei, prima del film. Perché volevo arrivare sul set non dico come un’Amazzone, però (ride). Senonchè, succede che durante questo training mio, privato, cado da cavallo e questo è stato un trauma. Per fortuna, non mi sono fatta niente, e lì per lì, presa da questo mio aspetto caratteriale per cui, se mi succede una cosa, reagisco subito, sono rimontata in groppa al cavallo. Ma, piano piano, anche nei giorni a seguire, si è insinuata in me la paura del cavallo (ride). Oltretutto, mi facevo grandi paranoie perché questi personaggi, le Drude, avevano con i cavalli un rapporto di assoluta familiarità, quindi la mia paura maggiore era di non riuscire a trasmettere questo sentimento nel film. Magari sarei riuscita ad andare a cavallo, ma se sul cavallo fossi stata impaurita, si sarebbe visto e capito! Il problema era stabilire con il cavallo un rapporto di familiarità, come se fosse una bicicletta.

E quindi alla fine come hai fatto? 

In questo senso, devo tutta la mia gratitudine ai coach, agli istruttori che abbiamo avuto sul set, ma anche prima, perché abbiamo iniziato con loro un training, per conto della produzione, prima di cominciare il film. Loro, che sono abituati a lavorare con gli attori, hanno un metodo, un approccio completamente diverso, più veloce. Ricordo un allenamento che ci fecero fare, durante una semplice passeggiata a cavallo. L’esercizio era quello di tenere gli occhi chiusi. Ancora oggi sotto la pelle ho il ricordo di quelle sensazioni: perché è stata la prima volta in cui mi sono sentita veramente libera, su quella creatura: mi sono fidata di quella cavalla che montavo, che era stupenda e che ormai mi conosceva. Alla fine, andavo al trotto serenamente, tenendo le due redini solo con una mano, con una dimestichezza, una familiarità, una gioia incredibili. E adesso ti confesso che non vedo l’ora che ci sia una nuova occasione di fare un film a cavallo (ride).

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E le scene action?

Ce ne sono tantissime, nel film. Non solo: ci sono tantissime scene cruente. La cifra stilistica del film è anche quella di essere un po’ pulp, per cui ci sono dei personaggi che il direttore della fotografia, Marco Bassano, definisce “fumettistici”, che è un termine che risponde perfettamente alle caratteristiche di tutti i personaggi. Per cui, tu vedi scene anche esilaranti, in certi momenti, giocate se vuoi anche su un’ingenuità, una “trasparenza” di questi personaggi, che poi, però, si contrappongono, un istante dopo, a momenti crudissimi, anche di dolore, emotivi, molto profondi. Credo sia un film unico nel suo genere da questo punto di vista, proprio perché viene giocato tra questi due opposti, tra questi due estremi. E poi, Giovanni è stato bravissimo a girarlo… Pensa che il film è stato fatto nel 2018, da maggio a luglio. Ha richiesto una lunga post-produzione, ma adesso finalmente esce.  Come ti dicevo, è un film complesso e pieno di scene di azione, di effetti speciali. Ma è pieno anche di scene di profonda riflessione: insisto su questo. E Giovanni è stato molto abile ad amalgamare il tutto, perché ti posso assicurare che il film scorre con una grande fluidità. Se l’è giocata molto bene, questa carta, Giovanni.

Parliamo del tuo personaggio, di Ciccilla…

Ciccilla, tra le quattro, è la più istintiva e forse anche la più crudele. In quello che lei fa, c’è anche parecchia soddisfazione anzi, diciamo meglio: c’è un bel po’ di sadismo. Ma c’è una ragione. Tutte e quattro le Drude, vengono da dei trascorsi diversi tra loro. Quello di Ciccilla è molto violento e quindi lei non ha conosciuto, nella vita, altro che violenza. Nello studio del personaggio e nel percorso psicologico che ho creato su di lei, anche insieme al regista e agli sceneggiatori, che sono Giovanni e Alessia Lepore, ho capito che le azioni efferate che Ciccilla compie… perché lei ha sempre lo stesso modo di vendicarsi e lo ripete, sugli individui di sesso maschile… le compie in quanto arriva da un certo tipo di passato. In qualche maniera, cerca di sublimare tutto quello che ha subito. Questo sempre a proposito del desidero di vendetta di cui parlavamo prima. Che per Ciccilla è anche il desiderio di liberarsi di questovmostro che si porta dentro. Personaggio, comunque, molto tridimensionale, che esercita la volenza non in maniera fine a se stesso, ma perché ha alle spalle un vissuto importante, pesantissimo. E alla luce di questo, assume un valore specifico molto rilevante, come contrappunto, il rapporto con le altre Drude. Perché quella forma di affettività che Ciccilla non aveva mai conosciuto nella sua vita, la trova e la recupera nella sorellanza con le “brigantesse”.  Poi, chiaramente, tra donne ci si impara a conoscere. Ci si “accoglie”, ecco. E nel finale, senza dirti troppo, Ciccilla denuderà una parte di sé più emotiva. Vedrai…

I tuoi piani, Rita, nel futuro immediato?

C’è in uscita la terza stagione di Il cacciatore, di questa serie che definisco bellissima, anche se ho sempre paura di apparire come una entusiasta di tutto. Un po’ è parte del mio carattere, un po’ perché mi considero fortunata, avendo sempre lavorato in contesti obiettivamente felici. Il cacciatore è una serie scritta molto bene, è girata bene, e qui io interpreto il personaggio di Giusy Vitale, che era stato già presentato in finale della seconda stagione, negli ultimi due episodi. Ma che ha un grande sviluppo nella nuova stagione in uscita. Come la maggior parte dei personaggi del Cacciatore, anche questo è realmente esistito, quindi devi fare su questi caratteri un tipo di lavoro e di studio diverso…

Giusy Vitale era una padrina, una capo-mafia, no? 

Pensa che, nella fase di studio, ho trovato articoli su riviste internazionali che la riguardavano. Fu la prima donna a diventare capo di un mandamento mafioso.

Un altro carattere forte, tosto…

Assolutamente, fortissimo. E diciamo anche che è un carattere in grande evoluzione rispetto al finale della seconda stagione, in cui era stata lasciata in emulazione del fratello. Ma adesso emergerà alla grande…. Un ruolo molto interessante e, insisto, scritto benissimo. Altra cosa che ho fatto di recente è un cortometraggio, cui tengo molto, che si intitola Big, scritto e diretto da Daniele Pini, che ha come protagonista una ragazza che si chiama Matilde: una ragazza molto fragile, che mi è piaciuta moltissimo essendo l’opposto dei personaggi che ho interpretato finora davanti alla macchina da presa. Una ragazza che ha fragilità profonde e che si costruisce, con gli anni, una corazza addosso. Una che si imbottisce di maglioni, di cose pesanti, proprio perché ha bisogno di proteggersi. Una ragazza grande così grande visivamente, ma in verità così piccola, così bambina, nell’animo, mi è piaciuto tantissimo interpretarla.