Pupi Avati: il Divin Contagio

Appunti, considerazioni e silenzi dal set del Dante di Pupi Avati
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Attenendo l’imbrunire, durante un cruciale cambio di scena che sancirà finalmente il passaggio in esterni, Pupi Avati cammina lentamente, con gran parte della troupe già al suo seguito, giungendo fino al chiostro pietroso dell’abbazia perugina di Montelabate. In questo silenzio sacrale c’è Dio. C’è tutto ciò che sottende l’arcano e il mistero più sacro. Non ha dubbi il regista emiliano… Al punto da ripeterlo più volte, mentre gli inserti di panno verde delimitano precisamente il confine fra gli elementi della scenografia e ciò che verrà poi aggiunto in fase di post-produzione. L’Albero del Paradiso, immoto punto di congiunzione fra l’infanzia e l’esilio del Sommo Poeta, per ora è un’ipotesi: una visione sospesa tra i segmenti filmati e i dettagli da modellare in CGI. Ricreare il medioevo è la sfida più ardua fra quelle poste alla messa in scena. Solo l’Umbria, che in tempi recenti era stata determinante già nel controverso Benedetta (2021) di Paul Verhoeven, poteva fare significativamente la differenza. L’Italia sembra essersi improvvisamente svuotata di suggestioni e scorci “danteschi”. Ma fra le mura benedettine di Santa Maria Valdiponte c’è Dio. E non c’è alcun artifizio da posporre nel tempo-zero di questo luogo dello Spirito, dove pare non sia giunto neanche l’Agosto più afoso né le grosse noie arrecate dal passaggio dell’ingombrante macchina del cinema con tutte le sue prassi moleste, i suoi afrori e le voci. Quelle inevitabili dissonanze atte a scalfire la realtà, ma anche a far vacillare quel fragile patto di non belligeranza, talvolta quasi un comunione, sancito fra la location sacrale e il suo ospite/utilizzatore. Nell’estate del 1978 Avati baciò le mura antiche, giunto al termine delle riprese, della grande e irripetibile casa sul fiume padano dove si riflettevano le settecentesche “Strelle nel Fosso”. Stravolta la simbiosi col luogo, durante una delle notti cruciali per la buona riuscita dell’intero film, è tale da aver instaurato un codice che fra sussurri e gesti bianchi corrisponde perennemente alla riconoscenza, rimanda al rispetto costante di quelle geometrie che nessun teatro di posa avrebbe mai potuto ricreare né rendere altresì sante. Dio è in questo silenzio, ripete Avati meditabondo. Ed è un silenzio, talvolta indecifrabile fino allo spasimo, che per la gestazione del suo Dante è durato quasi vent’anni. Un silenzio divenuto magniloquente, poi fonte di seguito e di prime risposte, solo aver battuto il primo ciak fra gli ambienti affrescati del tardogotico Palazzo Trinci di Foligno.

Un Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) esausto e tormentato bussa, al seguito di un viaggio tanto lungo quanto definitivo, alle porte di quella che sarà l’ultima dimora terrena dell’anziana figlia dell’Alighieri. Attraverso Suor Beatrice (Valeria D’Obici) la poesia si è fatta carne. È confluita in tutto ciò che potesse risultare miracolosamente superstite alle carestie e alle pestilenze, all’incedere spietato del tempo e all’onta dell’infamia politica. Questa “carne poetica” non avvizzisce né conosce tarli, piaghe o lebbre. È un corpo celeste. Eppure il medioevo di Avati è purulento, colmo di ordalie e superstizioni, infetto e infettante. In una delle prime stesure dello script le ossa dell’eretico Farinata degli Uberti venivano riesumate e, sotto ordine del Santo Uffizio, date nuovamente al rogo emanando un fetore mefitico. E così il lungo viaggio di Boccaccio alla volta di Ravenna, reso sin da principio quale pellegrinaggio liturgico e quindi fattosi impervio anzitutto per l’anima, viene scandito da tutti i passaggi drammatici dell’espiazione. Le tre ciocche recise dal suo capo, al culmine di un bagno di umiltà e precedenti al balsamo di una quiete temporanea, sono la tonsura alla quale si sottoporrà idealmente anche lo spettatore. La poesia è insieme la piaga e il medicamento. E con lui e per lui Boccaccio, dalle mani atrocemente tarlate dalla scabbia, viene chiamato anzitutto a liberarsi delle pulsioni terrene, delle certezze dell’intelletto e dalla tardiva tenerezza di una paternità inadempiente. A perdere l’ebrezza dell’ambizione, per giungere nuovamente ad una sincerità quasi ingenua, spogliandosi del superfluo e quindi anche di un certo grado di pudore. Solo per farsi figlio e tornare, al dunque, sulle labili tracce di colui che egli reputa il padre di ogni sua gioia terrena. Tutto è devozione nel Dante di Pupi Avati. Ed ogni suo brano rimanda al sommo gesto del perdono, quale riconoscimento necessario e altissimo: Dante s’illude che Firenze possa incoronarlo poeta e riaccoglierlo dall’esilio.

Boccaccio, quasi con scorno, che sua figlia gli sia clemente e non gli torca nuovamente il viso. Suor Beatrice, seppur giunta quasi alla fine dei suoi giorni, non riesce ad assolvere il male che i fiorentini hanno inflitto al suo genitore. Gemma Donati rivorrebbe indietro, giunta fino all’ossessione, ogni singola cosa che sia stata data alle fiamme e annientata dall’ardente ambizione del suo consorte. Ma la poesia attraversa il medioevo di Dante similmente a un’infezione. Non c’è nulla che possa avvicinarsi alla pacificazione se la settima musa ha deciso di venire a portare la spada fra le genti, piuttosto che il balsamo della consolazione. Il “divino contagio” coglie in giovane età un Guido Cavalcanti (Romano Reggiani) che non difetta in spavalderia quanto un Dante fragile, perennemente ragazzo e disarmante nelle sue ambizioni, che ha lo sguardo febbrile di Alessandro Sperduti. Riferirsi al medievale Magnificat (1993), non solo quale illustre precedente ma ancora e di più quale principio, sarebbe fin troppo prevedibile. La vera “chiave” per accedere alla profondità autoriale del nuovo film di Avati è costituita da gran parte della sua stessa filmografia. Con Dante egli mette in scena la sua storia di ragazzi e di ragazze, la sua ipotesi leggendaria attorno al regalo nuziale dell’eterea Beatrice (Carlotta Gamba), la sconfinata giovinezza di un’intera generazione chiamata alla guerra e dilaniata dall’agone politico. Il processo di “umanizzazione” della figura di Dante s’avvicina a quello del Mozart di Noi Tre (1984), reso infelice dalla mercificazione del suo talento, e perennemente sul punto di cedere, pur di dirsi giovane e in diritto di essere felice soprattutto negli errori, grazie alle distrazioni e negli affanni dell’amicizia.

Il silenzio sacrale dell’abbazia di Montelabate, ormai a notte fonda, è scalfito da una serie di movimenti sui carrelli che compongono le inquadrature finali. Boccaccio attende la presenza di Suor Beatrice ed ancora non sa, nascondendo le mani fasciate con trepidazione, se a breve avvertirà la sua voce, appena un sussurro dal buio, oppure il silenzio di Dio. L’Avati che entra in campo, anche per parlare brevemente con Sergio Castellitto, cammina a passi lenti fra quel silenzio e quelle tenebre. Giorni prima, durante i chilometri che separano Perugia dalla Valnerina, i suoi ricordi avevano regalato ai presenti una dissertazione sull’utilizzo di ciò che sono stati quei grossi proiettori a lampade, detti comunemente “bruti”, e dell’ilarità dei macchinisti quando, un tempo, non tenevano in considerazione il malcapitato che non conoscesse cosa fossero le “coppelacche”. Ma il clima nell’abbazia di Montelabate è radicalmente diverso. Anche la troupe attende le sorti di Boccaccio. Ed è come se con lui, forse per la prima volta dall’inizio delle riprese, vivesse la tensione della scoperta. Il fiato resta sospeso. Suor Beatrice potrebbe percorrere quel buio e rompere il silenzio. Potrebbe persino tenere le mani di quell’uomo affranto e malato. E in un rinnovato silenzio, al profondo contatto con quelle bende consunte, sanarlo. Redimerlo. Perdonarlo. Parlargli di quel bambino che ebbe a imparare il nome di tutte le stelle.