Non premete quel pulsante!

I migliori horror ambientati in ascensore
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Fatti una bella rampa di scale, ne guadagnerai in salute! Questo il mantra che quel gran simpaticone del nostro medico continua a ripeterci senza sosta da tempo immemore, vero? E non certo solo per stimolare il nostro benessere fisico, sia chiaro, ma anche per assicurarsi che saremo in grado di arrivare sani e salvi a paragli la prossima parcella. Non è infatti mai cosa buona e giusta fidarsi troppo degli ascensori, poiché è tra quelle implacabili porte scorrevoli che, almeno su grande e piccolo schermo, si celano da sempre gli orrori più oscuri e indicibili. Quegli orrori che mai ti aspetteresti di poter evocare pigiando il pulsante sbagliato o, peggio ancora, fermandoti a un piano che avrebbe fatto meglio a rimanere disabitato ancora per qualche tempo. Diamo dunque un’occhiata ad alcuni dei titoli più curiosi e gustosi del caso, tenendo sempre a mente che qualche gradino in più è il segreto per non rischiare di stringere la mano prima del tempo alla Triste Mietitrice.

Ascensore per il patibolo (Louis Malle, 1958)

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Gran classicone del genere noir con protagonista una giovane Jean Moreau nei panni di una fredda femme fatale fresca fresca di omicidio ai danni del ricco consorte, accoppato di gran carriera grazie alla complicità del di lei amante Maurice Ronet. Tutto sembra filare liscio, almeno fino quando il killer gigolò di turno non rimane bloccato nell’angusto vano dell’ascensore del condominio del misfatto a causa di una fantoziana interruzione di corrente. Il nostro è costretto a una disperata e claustrofobica corsa contro il tempo con solo un misero accendino a disposizione e con la pressante esigenza di portare quanto prima a casa sana e salva la pellaccia. Il tutto ovviamente evitando, se possibile, di finire a penzolare con una bella e robusta corda attorno al collo.

Un giorno di terrore (Walter Grauman, 1964)

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Tesissimo esordio cinematografico dell’immenso James “Fucking” Caan nelle sozze vesti di un violento e sciroccato delinquentello di quartiere introdottosi, assieme ai suoi poco raccomandabili amichetti, nella sciccosa magione di un’attempata Olivia de Havilland, dopo aver saputo che la suddetta si trova intrappolata – sempre a causa del solito sfigatissimo blackout – all’interno dell’ascensore a gabbia. Avrà così inizio un sadico gioco al gatto con topo nel quale il monellaccio di turno, oltre ad arraffare quanti più preziosi possibili, si divertirà a stuzzicare la povera padrona di casa, prigioniera suo malgrado a tre metri d’altezza e con addosso una fifa tanto nera da fare invidia alla voragine di morte che incombe sotto ai suoi inciabattati piedini.

Assassinio al terzo piano (Curtis Harrington, 1967)

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Altro giro e altra corsa per quel buontempone di James Caan, stavolta accanto a una bella Katahrine Ross con la quale condivide letto, tanti soldoni e una sconfinata passione per qual si voglia burla, meglio ancora se tendente al macabro e al mortifero. I nostri finiscono anche per tirarsi in casa un’equivoca venditrice porta a porta con il faccione sornione di Simone Signoret e un egual simpatia per i proverbiali giochini di morte, fin quando, ridendo e scherzando, finisce che il morto stavolta ci scappa per davvero. Ma proprio il suddetto morto, nascosto in fretta e furia nel piccolo ascensore domestico, inizia ben presto ad apparire e scomparire meglio di un Houdini prima maniera, a dimostrazione di come qualcosa di veramente losco sembri covare dietro a quelle stramaledette porte scorrevoli.

Nel più alto dei cieli (Silvano Agosti, 1977)

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Diciamoci la verità: credenti o meno, recarsi in visita al Santo Padre dev’essere un’esperienza davvero impagabile. A meno ovviamente di non trovarsi bloccati in un lussuoso ascensore in pieno Vaticano assieme ad altri tredici disgraziati impauriti, sudati e ben propensi a lasciarsi andare ai più brutali ed elementari istinti animali. Un’esperienza a dir poco agghiacciante e tutt’altro che mistica, consumata nei pochi metri quadrati di questo disperato microcosmo (dis)umano divenuto carosello di violenze carnali, aggressioni, coprofagia e persino qualche bell’omicidio, trasformando un elementare mezzo di trasporto domestico in una zattera della Medusa dei più laidi, sozzi e corrotti orrori che nemmeno il buon Dio, nella sua immensa sadica misericordia, avrebbe mai potuto anche solo concepire. Almeno non da sobrio, s’intende!

L’ascensore (Dick Maas, 1983)

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Paura e panico serpeggiano tra i poveri colletti bianchi di Amsterdam nel momento in cui gli ultramoderni ascensori di uno stilosissimo edificio in pieno centro città iniziano, per così dire, a fare le bizze. E che bizze! Decapitazioni, soffocamenti, scivoloni mortali di decine di piani e mille altri inspiegabili mortali scherzi sembrano ormai abitare fra i sinistri vani che ogni giorno trasportano centinaia di ignari visitatori all’interno di questo mattatoio umano a cinque stelle. Forse non sono qualche sporadico blackout o qualche falso contatto nei circuiti integrati della centralina di controllo la vera causa di tutto questo sanguinolento macello. Spetterà dunque a un intraprendente tecnico della manutenzione e a una scafatissima giornalista tentare di far luce su questa serie di terrificanti eventi, spendo solo che, così come recita il sottotitolo del discreto remake del 2001, la prossima discesa non sia poi così infernale come si vocifera.

13° piano: fermata per l’inferno (Walter Grauman, 1990)

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Quella del giornalista è davvero una nobile professione. Soprattutto quando il tuo intento è quello di far luce su un misterioso fatto di sangue avvenuto a inizio ‘900 fra le mura di un vecchio e lugubre hotel in quel di Los Angels, quando uno scioccato ospite, armato di una bella e robusta accetta, fece allegramente fuori una decina di persone con l’intento di ingraziarsi nientemeno che Satana in persona. Tutte storielle, non è vero? Certo, ma quando lo scalcagnato e ammuffito ascensore in stile liberty che troneggia nell’edificio si blocca inaspettatamente in un fantomatico 13° piano che non dovrebbe neanche esistere, ecco che la nostra impavida reporter inizierà a sospettare che qualcuno o qualcosa di decisamente poco simpatico possa ancora celarsi dietro le mura di questo albergo degli orrori, ben acquattato nel buio e con parecchi conti ancora in sospeso da regolare.

Hellevator: The Bottled Foois (Hiroki Yamaguchi, 2004)

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Che gli amici del Sol Levante  siano abituati a vivacchiare in migliaia stipati come sardine in pochi scapoli di metri quadrati è ormai cosa nota. Perciò non stupisce affatto che, in un’ipotetica futura società distopica modello Metropolis nella quale la stragrande maggioranza della popolazione si trova infognata nel sottosuolo in giganteschi edifici di oltre 130 metri di altezza, un nutrito gruppo di queste povere talpe umane finisca bloccato in uno dei fatiscenti ascensori che garantiscono lo spostamento da un settore all’altro. Peccato che, fra questi sozzi ed imbruttiti tipacci, si celino pure due pericolosissimi psicopatici in manette che paiono usciti dritti dritti dalla mente malata di Takashi Miike e che, approfittando della disattenzione del loro incauto guardiano, dopo averlo accoppato, decidono di appioppare la loro sadica furia omicida anche agli altri colleghi di cabina. Un delirante bagno di sangue che causerebbe un sonoro orgasmo persino a uno come Sion Sono.

Piano 17 (Antonio e Marco Manetti, 2005)

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Lo spionaggio industriale non è mai una passeggiata, soprattutto se sei un delinquentello di quart’ordine con il compito di intrufolarsi in un palazzone aziendale e far sparire alcuni documenti scottanti. Ma se ti ritrovi bloccato nel solito beneamato ascensore con un altro paio di tizi e per giunta con una bomba pronta ad esplodere nella tua valigetta, ecco che, come si sul dire in questi casi, il crimine dimostra di non pagare mai abbastanza. Mentre il timer ticchetta implacabile verso l’esplosiva ora X e i tuoi compari rimasti comodamente in macchina hanno ben altre gatte da pelare, ecco che quella che si preannunciava una semplice, comoda e redditizia giornata rischia di schiantarsi contro il definitivo THE END molto prima che le dannate porte scorrevoli tornino finalmente ad aprirsi.

Blackout (Rigoberto Castañeda, 2008)

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Tre estranei chiusi in un ascensore durante un’interruzione di corrente, ciascuno con i propri problemi da risolvere e con un trascorso non proprio limpido sul groppone. Tutto più o meno nella norma insomma, tranne per il fatto che, con il passare delle ore e con l’aria che si fa sempre più tesa e sudaticcia, ecco che uno dei tre sembra mostrare dei problemi decisamente più preoccupanti rispetto agli altri. Problemi da ergastolo e camicia di forza, tanto per intendersi, di quelli che renderebbero orgoglioso un Jeffry Dahmer in piena estasi creativa. Ma chi, all’interno di questo tutt’altro che allegro terzetto involontariamente prigioniero in poche manciate di claustrofobici metri quadrati, cova in sé lo spirito torturatore di un novello Ted Bundy? Una bella domanda, la quale non tarderà poi molto a trovare la sua dolorosa risposta. Soprattutto alla luce del fatto che di tempo per le congetture ce ne sarà più che in abbondanza da spendere e spandere.

Devil (John Erick Dowdle, 2010)

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Già il fatto di trovarsi intrappolati in una gabbia di metallo sospesa a parecchi metri d’altezza insieme ad altre quattro persone mai viste prima non è che sia proprio una gran figata, vero? Se poi una di loro si porta pure il proverbiale Diavolo in corpo, beh, allora si può dire che la sfiga regni ormai incontrastata. E mentre la morte inizia troculentemente a mietere le sue vittime ad ogni sfarfallio di luce, ecco che la sacra raccomandazione medica di imboccare qualche sana rampa di scale in più non sembra più così tanto scontata agli occhi dei nostri poveri protagonisti, catapultanti in una versione da incubo dei celeberrimi Dieci piccoli indiani di Agatha Christe, compressa fra le quattro mura d’acciaio di un moderno  ascensore e con quel tocco di perturbante orrore che solo la penna di uno come M.N. Shyamalan può ancora permettersi di cavar fuori.

The Elevator (Massimo Coglitore, 2015)

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Non basta essere un ricco, famoso e aitante presentatore di quiz show televisivi per essere immune dal guardare la morte direttamente in faccia. Basta infatti un attimo per ritrovarti bloccato in uno scomodo ascensore, alla vigilia del famigerato Labour Day, in tutt’altro che felice compagnia di una sciroccata e sconosciuta signora il cui unico intento sembra quello di volerti torturare per benino a suon di bisturi, pinze e domande a risposta multipla come in una distorta e truculenta versione del tuo programma. Sembra infatti che la versione in gonnella di Saw ti ritenga responsabile di un terribile evento accaduto nel passato e che pare averla toccata nel profondo, al punto tale da volertela far pagare con tutti gli interessi. Non resta dunque che incrociare le dita, ingraziarsi qualche misericordioso santo e rispondere correttamente a ciascun strambo quesito, pena la perdita, ancor prima che della vita, di qualche preziosa parte del tuo stesso corpo.

The End? L’inferno fuori (Daniele Misischia, 2017)

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Era solo questione di tempo prima che i famigerati e deambulanti infetti affamati di carne umana facessero capolino anche nella città eterna, seminando morte, frattaglie e distruzione all’ombra del Colosseo. Ma a vedersela particolarmente brutta stavolta sarà un cinico e arrogante businessman rimasto infognato in un mal funzionante ascensore alla vigilia di un importante incontro d’affari, tenuto sotto scacco da un gruppetto particolarmente scalmanato di mangia carne a tradimento e con l’unico conforto di sporadiche comunicazioni telefoniche con la moglie e uno sconosciuto addetto alla manutenzione. Se dunque il buongiorno si vede dal mattino, diciamo pure che le aspettative di una bella giornata sono state tutte allegramente buttate nel cesso ancor prima della pausa caffè.