Non aprite quella porta: tutti i remake

I remake, reboot, prequel e origin story dal 2000 a oggi
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La nuova, ennesima linea editoriale sta in questi giorni rifacendo il trucco a Non aprite quella porta. Una rilettura “da capo” che, a questo punto, non farà che allontanare ulteriormente la saga dalla propria matrice, confermandola come il più sconclusionato dei franchise horror. Laddove i recentemente resuscitati Halloween o Scream hanno saputo mantenere negli anni una sorta di coerenza estetica di fondo (nonostante concept sostanzialmente generici), stabilire il taglio cinematografico di questo Texas Chainsaw Massacre appare più difficile di anno in anno. Il prototipo guida di Tobe Hooper e Kim Henkel era già di per sé un ibrido complesso: satira populista post-hippie, incubo splatter in cui lo splatter non c’è, folk horror della deindustrializzazione, proto-pseudo-found footage, saga familiare… Ognuna delle produzioni che negli ultimi decenni si sono palleggiate i diritti ha privilegiato la suggestione preferita, o preferibile in virtù dei cambi di gusti popolari. E oggi, della commistione originaria resta poco, diluita nel tempo che passa, nascosta sotto la sedimentazione di nuove tendenze e nuove letture. Il vero strappo della saga Non aprite quella porta rispetto ai film originari è forse avvenuto tra il 1995 e il 2003. Anni di pressoché totale scomparsa dell’horror dai listini produttivi statunitensi, superato a destra dal postmodernismo, in cui il gusto kitsch, feroce, politico e intrinsecamente novecentesco della serie andò perso per sempre. Al suo ritorno, nel 2003, Leatherface si era ormai fatto maschera da teatro dell’arte orrorifica, e “Non aprite quella porta” poco più che un trademark applicabile a piacimento. I diritti sono nel frattempo rimbalzati da Michael Bay a Lionsgate fino alla giungla del VOD – dove oggi l’ennesimo Texas Chainsaw Massacre inaugura l’ennesimo decennio. Con il film del 2022, il produttore Fede Alvarez (che di remake senza remake se ne intende) ha messo insieme l’innesto definitivo alla saga:  quello in cui del film originale, semplicemente, non c’è più niente. La serie è “libera” da se stessa, cancella protagonisti e lore, ambientazione e sottotesto, ripartendo da zero – di nuovo. Ripercorriamo dunque la storia del marchio lungo questi ultimi due decenni, highlander traballante nel tortuoso percorso dell’horrror mainstream statunitense dal duemila a oggi.

Non aprite quella porta – Marcus Nispel, 2003

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Zero violenza e e inquietante deriva Mtv: così si presenta quel che resta del gore a inizio 2000, prima che il revival splatter europeo e poi mondiale arrivasse a risvegliare l’interesse del grande pubblico per queste forme di messa in scena. L’adattamento che l’allora onnipotente Michael Bay mette insieme è figlio dei suoi tempi, primo del dittico forse più marginale del franchise; progetto essenzialmente teen, con la final girl Jessica Biel protagonista, zero o quasi sangue e una poco riuscita ricerca di morbosità espressa attraverso campi stretti, color correction e montaggio da videoclip. Ma soprattutto, è il film che separa in maniera forse più netta il film alla sua dimensione grottesca, ironica, facendo di Leatherface (qui “Thomas Hewitt”) un generico assassino mascherato in linea con i competitor del periodo. Toni dunque cupissimi, notte onnipresente, illuminata da un glorioso cast di supporto (R. Lee Ermey, a uno dei suoi ultimi grandi ruoli) ben felice di comparsare nel revival dell’icona pop sudista. Ma il “derby” a distanza con Le colline hanno gli occhi di Aja è una sconfitta a tavolino.

Non aprite quella porta: L’inizio – Jonathan Liebsman, 2006

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Facilissimo da dimenticare, il sequel e ultimo film dell’era Bay segna il primo interessante tentativo di andare a pasticciare con le backstory, tendenza di matrice televisiva “importata” nella maggior parte delle saghe del periodo. E’ nel film di Jonathan Liebsman che si comincia a elaborare un sempre maggior numero di interpretazioni retrospettive per i soggettoni protagonisti, andandone a collocare su un piano storico (per quanto rozzo e abbozzato) la natura omicida e cannibalesca. Naturalmente manca qualunque forse di consapevolezza in grado di approfondire le implicazioni che il contesto anni ’30 comporta; si risolve in una narrazione a flashback, avanti e indietro, scene scollegate con ancor meno plot del solito e un sempre più palese disinteresse nella costruzione delle controparti “umane”. Rispetto al film di Nispel si devia parzialmente dallo slasher anemico verso il torture porn allora imperante, con un paio di sequenze in forte odor di Hostel dei poverissimi; un confronto a perdere con le nuove tendenze del genere, alimentato dal contemporaneo trionfo di Rob Zombie e della sua famiglia Firefly – il vero remake hooperiano non ufficiale, che sarebbe valso paradossalmente al suo autore un biglietto per la saga rivale di Halloween.

Non aprite quella porta 3D – John Lussenhop, 2013

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Cambiando ancora una volta padrone, il Texas Chainsaw Massacre della Lionsgate si ripresenta dopo sette anni di vuoto come un compendio quasi parodistico dell’intrattenimento cinematografico al volgere del secondo decennio del secolo. Come in un bingo dell’audiovisivo duemiladieci, le abbiamo tutte: volti in uscita dalla prestige tv (Daddario, nei mesi del suo fugace trionfo nel True Detective HBO), recupero del femminile in ottica grrrl power a cancellare i sadici e misogini anni 2000, 3D inutile e appiccicato in post (tendenza a onor del vero già arrivata agli ultimi fuochi) – ma soprattutto, fattore ben più interessante, un rinnovato interesse per il concetto di saga e di franchise. La nube calda della nostalgia passatista calava in quegli anni sull’immaginario culturale, soffocandone gli sviluppi in un eterno ritorno all’infanzia da cui ancora non ci si è affrancati. Anche Non aprite quella porta torna al passato, azzerando le ambizioni di reboot per tornare alla saga storica. Facendo propria la lezione di Saw (serie che in questo fece scuola ben prima dell’MCU), il film di Lussenhop riconduce il racconto su binari noti, riporta in scena vecchie glori e personaggi storici, ricomponendo il bizantino affresco di una decennale, scombinatissima epopea familiare.

Leatherface – Alexandre Bustillo e Julien Maury, 2017

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In un campionato, inutile girarci attorno, piuttosto infame per qualità media delle proposte, Leatherface è forse l’unico innesto del franchise appartenente al millennio in corso a meritare una visione seria. Se i lavori precedenti, drammaticamente lasciati indietro dalle serie rivali, parevano ormai condannati a rincorrere le tendenze, il film del 2017 prova a riportare una visione autoriale al proprio indisciplinato materiale. La saga madre torna come prepotente modello: non nell’ottica di tortuosi e superficiali rimandi del plot, quanto in più profondi e strutturali termini cinematografici. Per una volta al timone non c’è infatti uno shooter qualunque, ma due draghi come Maury e Bustillo, ex nomi di punta di quella New French Extremity cui regalarono forse il più truce dei contributi in À l’intérieur. A loro il compito di fornire una nuova, vera, elaborata origin story al villain del titolo, riportandolo al camp provocatorio in cui Hooper lo concepì. Nulla di memorabile, ma è un film vero: ha suspense, qualche personaggio interessante, immagini forti e un debito finalmente riconosciuto con quel Devil’s Rejects che, forse per manifesta inferiorità, la saga aveva finora beatamente ignorato. Almeno un paio di sequenze importanti, tra manicomi, polizia e una guerra aperta del cattivo gusto contro le istituzioni disciplinarie: nel suo piccolo, da rivalutare.

Non aprite quella porta – David Blue Garcia, 2022

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Ed eccoci di nuovo all’inizio. Tanto si è detto dello streaming di largo consumo come della reincarnazione del vecchio grindhouse, grande magazzino dell’audiovisivo riadattato al gusto bulimico e cieco dei nativi digitali. E’ proprio quel tipo di trattamento che sembrerebbe giovare alla saga, per una volta libera da pressioni e obblighi imposti dalla grande distribuzione (e dai grandi budget). Nel clima di laissez faire pressapochista delle produzioni Netflix, Non aprite quella porta trova il suo capitolo più “ristretto”, lowcost al limite del fan movie, guadagnando più di un punto dalla propria stessa pochezza. L’epica è la grande assente dal film di David Garcia, che rinuncia per una volta a ogni nerdismo, e se confronta l’Halloween di Gordon Green è solo in chiave parodica (vedasi il reintegro di Sally Hardesty con una faccia nuova  e una parabola demenziale). Il film è ottanta minuti, molta violenza, un abbozzo di grezzissima presa di posizione populista dal sapore confederato, una scansione quasi in tempo reale che inchioda il film in tre location e un ritmo senza buchi. Più di un ammazzamento notevole, forse i migliori da un po’ di film a questa parte. Il sesto decennio della serie si è aperto discretamente: saremo sicuramente qui, a fare il bilancio, tra un altro secolo ancora.