Nelle pieghe della “Cosa”

Il capolavoro splatter di John Carpenter e il suo contributo all’epopea della nuova carne
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Antartide, base di ricerca americana. Gli uomini della struttura sono alle prese con una micidiale creatura teratomorfa capace di “impossessarsi” dei corpi di cani e uomini. Il solo modo per capire chi sia contaminato è attraverso la bruciatura del sangue. Ma “la Cosa”, nonostante la resistenza dei superstiti, si rivela ben più difficile da neutralizzare, tanto che il personale della base viene decimato. A John Carpenter 15 milioni di dollari non li avevano mai dati (e la cosa non si sarebbe più ripetuta). La Universal accetta di finanziargli un progetto a una prima occhiata assai timido, specie se paragonato al precedente delirio punk-apocalittico 1997: Fuga da New York; un remake di un celebre fantascientifico maccartista, La cosa dell’altro mondo, 1951, regia Christian Nyby e (non accreditata) di Howard Hawks. Carpenter riprende il racconto originario di John W. Campbell Jr. (una misconosciuta pietra miliare) e affida la sceneggiatura a Bill Lancaster. Dato che l’azione si svolge al Polo Sud, Carpenter gira sui ghiacci. Quattro mesi, a cavallo tra novembre 1981 e febbraio 1982, fra la British Columbia, la Tongas National Forest in Alaska e qualche ritocco agli Universal Studios losangelini per gli interni. Riprese pacifiche. L’unica nota colorita della lavorazione è il collasso nervoso capitato a Rob Bottin, il tecnico degli effetti speciali. Tutte sue le indimenticabili mutazioni della creatura: 23 anni e genio da vendere. Il carico di lavoro è però eccessivo e lui, brevemente, crolla. Nulla di grave. Il peggio verrà dopo, in sede di distribuzione. La Universal fa uscire il film nell’estate dell’82. Contemporaneamente a E.T. di Spielberg. Non c’è storia: pubblico e critica prediligono una visione benigna e infantile della vita extraterrestre e prendono malissimo la prospettiva apocalittica carpenteriana. Tempo per ricredersi, tuttavia, ne hanno avuto…

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Ha detto John Carpenter del suo film: «Per prima cosa bisogna partire dalla fonte: la storia originale da cui La Cosa è tratto è stata scritta nel 1938 da J. W. Campbell e si intitola Who Goes There? Noi abbiamo realizzato il film seguendo quasi alla lettera il libro di Campbell. La versione di Howard Hawks era molto più legata al suo periodo storico, gli anni Cinquanta, e anche la creatura protagonista era molto tradizionale. Nel nostro film, invece, la creatura doveva essere mutante, imitare le altre forme viventi e confondere i protagonisti. La mia idea di partenza era realizzare un mostro come non si era mai visto sullo schermo, mutevole, sconvolgente, molto diverso dalla solita creatura rigida “alla Godzilla”. Il film è tutto incentrato sulla paranoia e la sfiducia: “Sei umano o no? Come lo puoi provare?”. La scena chiave, la più metaforica e quella che amo maggiormente, è la scena del “test del sangue”, in essa è racchiuso tutto, è veramente lo “showdown” del film! Mi hanno chiesto spesso se avessimo pensato a una possibile metafora della paura dell’Aids, che allora cominciava a emergere: sicuramente è una lettura che può essere fatta, anche perché La cosa fa parte della corrente del body horror. Il cinema horror americano degli anni Ottanta aveva molto a che fare con le trasformazioni del corpo umano. Questo tipo di venerazione-culto del corpo è cominciato, essenzialmente, proprio negli anni Ottanta, quando tutti andavano ossessivamente in palestra ad allenarsi per tentare di mantenere il proprio corpo giovane: erano tutti terrorizzati dalla vecchiaia. Considerate che l’oggetto più venduto, all’epoca, era il corso di ginnastica tenuto da Jane Fonda. Per cui il body horror ha sfruttato questa grande ossessione, e il tratto caratteristico di questi film è diventata la deturpazione fisica.

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L’esplosione dello splatter deriva da paure molto reali e assolutamente concrete, nasce tra i ragazzi della mia generazione, i baby boomers, i quali, vedendosi invecchiare, non hanno resistito e hanno tentato di recuperare la giovinezza, mantenendola per sempre. Non volevamo mollare, non accettavamo di invecchiare serenamente, quindi ci allenavamo in palestra perché i nostri corpi assomigliassero a quelli delle star del cinema; ci aspettavamo che le nostre vite assomigliassero a quelle delle star. Non è del tutto corretto sostenere che sia assente, in La Cosa, l’elemento femminile… Il mostro stesso è femmina, perché se a una prima occhiata ingloba tutti i “generi” animali, la creatura è sempre contraddistinta da una struttura umida e molliccia… è un mostro femmina e si appresta a conquistare il mondo! In origine la presenza femminile era prevista, o per lo meno si parlava di inserire un “surrogato” esplicito come una bambola gonfiabile, abbiamo anche girato una scena con una bambola di gomma. Poi non l’ho montata perché mi pareva totalmente priva di significato. Il tipo di approccio al mostrare o meno dipende dal genere di storia che si racconta. C’è un cliché ad Hollywood secondo il quale il male, anche se fosse il volto del diavolo, non deve essere mai mostrato, ma solo suggerito. Se ne parlò tanto quando Tourneur fece Night of the Demon… Questa cosa, secondo me, non è sempre vera: ci sono storie in cui si deve suggerire, in cui quello che rimane celato è molto più spaventoso, ma in alcune altre bisogna prendere il male e buttarlo in faccia agli spettatori in piena luce dicendo: «Ecco ciò che vi spaventa! Dateci un’occhiata!». Entrambi gli approcci possono essere ugualmente spaventosi, dipende dal film che si vuole fare».