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Why Don’t You Just Die!

2018
Titolo Originale:
Papa, sdokhni
REGIA:
Kirill Sokolov
CAST:
Aleksandr Kuznetsov (Matvey)
Vitaliy Khaev (Andrey Gennadievitch)
Evgeniya Kregzhde (Olya)

Il nostro giudizio

Why Don’t You Just Die! è un film del 2018, diretto da Kirill Sokolov.

Si capisce dopo pochi minuti di Why Don’t You Just Die! che il regista Kirill Sokolov – da non confondere con l’omonimo pittore, scultore, illustratore di Bulgakov e inventore di un sistema di stampa – sia un fervido ammiratore di Leone, Tarantino e Park Chan-Wook. Come capita spesso ai film d’esordio, infatti, Why Don’t You Just Die! – presentato al Tallinn Black Nights Film Festival del 2018 e subito incorso nell’attenzione del pubblico occidentale – trasuda l’entusiasmo del neofita (in questo caso a maggior ragione, visto che Sokolov nasce come laureato in Fisica e Tecnologia delle Nanostrutture), il suo desiderio di mostrare tutto ciò che conosce e ama. Ciò può essere un bene o un male. Qui, l’incipit fa temere il peggio, per quanto non manchi di trovate interessanti: un ragazzo di fronte a una porta, dietro la schiena ha in mano un martello, si dà la carica battendosi il pugno sul petto prima di suonare il campanello («Evil won’t touch me»). Sappiamo che la sua intenzione è uccidere… il corpulento signore pelato che gli apre: il padre della sua ragazza, che si presenta come un detective della polizia e, dopo aver notato il martello, dà l’impressione di aver capito tutto (proprio come lo spettatore).

Sokolov traduce l’inevitabile tensione con una mitragliata di campi e controcampi, dettagli sugli occhi, angolature ardite, ralenti, zoom, refrain alla Morricone, effetti sonori fumettistici (ci manca solo che appaiano i baloons con “Kapow!”, “Sbang!” e “Sbadabam!”), mentre la moglie sottomessa prepara il caffè in una delle stanze del soffocante appartamento, tappezzato di verdi lynchani e rossi bergmaniani entrambi optical. Al punto che si paventa un cortometraggio stirato fino a diventare un lungo. Nei primi venti minuti di  Why Don’t You Just Die!  dopo i “convenevoli”, Matvei (il cui attore a lungo andare mostrerà una somiglianza fisica straniante con il Donald Sutherland versione Klute) e il padre di Olya (che a noi ricorda tanto, non solo esteticamente, il Vic Mackey di The Shield e per questo ci sta simpatico nonostante tutto) si danno in breve botte da orbi: morsi al braccio fino a strappare la carne con sangue nero zampillante in primo piano, televisori lanciati in testa con scariche elettriche incluse, voli dentro la parete (gli stunt sono degni dei migliori film di arti marziali). Violenza pulp con musica elettronica allegra a dare il tono grottesco, rilanciato anche dalla recitazione biomeccanica di Natasha, la madre, e dai morsacci che il padre dà a un salame intero.

Titolo di testa.

Flashback dentro un’altra stanza rossa in cui Olya si nega a Matvei, poi si sposta in una cucina verdastra (di nuovo i colori complementari invisibili agli acromatopsici e cari ai paranoici) e gli chiede di uccidere per lei il genitore. Perché l’ha violentata quando aveva dodici anni. Olya appoggia un dito sul fuoco dove il caffè è appena bruciato e Matvei a quel punto è pronto anche a farsi trapanare una caviglia (letteralmente). Ma proprio quando lo spettatore si sta chiedendo in che modo potranno essere riempiti i successivi 60 minuti, il ritmo rallenta, lo stile cambia, pur rimanendo ironico, cinico allo spasimo, molto fisico (il lavoro sul corpo degli attori è straordinario, un po’ come la mobilità della lingua di Matvei nel recuperare una forcina dallo scarico lurido della vasca – astenersi soggetti rupofobici), con dettagli macabri in modalità arty, aprendo a un dramma dai risvolti tragici in cui, da buona tradizione russa, non si salva (quasi) nessuno e i temi universali si affastellano: avidità, tradimento, senso di colpa, totale assenza di valori (sacrificati sull’altare del solito Dio Denaro), famiglia come covo dei peggiori istinti, sesso come merce di scambio. Fino al discorso morale di Olya (!) sul proliferare del grigio una volta rinunciato al bianco e nero inscalfibile dell’infanzia. Ora che ha detto tutto, Sokolov può proseguire leggero.