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Westworld 4

2022
CAST:
Evan Rachel Wood (Dolores Abernathy)
Thandiwe Newton (Maeve Millay) Jeffrey Wright

Il nostro giudizio

Westworld 4 è una serie tv del 2022, ideata da  Jonathan Nolan e Lisa Joy.

Da questa settimana è finalmente disponibile, anche su Sky Atlantic,  l’ultimo episodio della quarta stagione di Westworld, serie tv ideata da Lisa Joy e Jonathan Nolan ispirata, almeno per quel che concerne le prime due stagioni, all’omonimo film del 1973. Tutto ciò che di Westworld si ama è ben chiaro fin da quando il sipario si è aperto nell’ormai lontano 2016: lo scontro uomo-macchina, la tracotanza dell’essere umano nel voler governare il mondo che lo ospita, l’annosa e controversa questione del libero arbitrio. Di contro, è presente negli sceneggiatori la tendenza a voler esibire doti di scrittura e ricchezza argomentativa che spesso si tramutano in un fiume in piena dispersivo e difficile da ri-canalizzare. L’andamento delle stagioni è ondivago e oscilla tra l’ambizione di superarsi e i tentativi di semplificare la struttura narrativa ricorrendo spesso a esercizi di stile, cliché, a una sbiadita resa dei personaggi e ad ampollose campagne di retorica che lasciano un po’ di amaro in bocca. Dopo il semi-disastro della goffa e ridondante terza stagione, la quarta si rivela un magro premio di consolazione che, se non altro, si ricongiunge con gli ami rimasti in sospeso, ripristinando un senso dell’orientamento totalmente smarrito in precedenza. Questo quarto capitolo dispone di un impianto narrativo complesso, ma, tuttavia, lineare,  ricco di presuntuosi palazzi spazio-temporali e di invasioni intimistiche all’interno della fenomenologia degli spiriti dei protagonisti. E’ una stagione che scuote dalla fondamenta tutti i temi trattati in precedenza, che respira a polmoni aperti e che non ha il timore – ahinoi  – di strafare. Retrocede dietro le quinte il tema del libero arbitrio, per concedere il palco alle non meno complesse questioni della deificazione, della trascendenza e a una sorta di contrappasso dell’assurdo fra l’identità della macchina e quella umana.

Il mondo in cui ci imbattiamo è abitato da Charlotte, Dio-consapevole che domina il promiscuo universo che ha creato, speculare e contrario a Westworld, e da Cristina, con il volto della vecchia Dolores, burattinaia inconsapevole di un realtà alla quale, tuttavia, è estranea. A Westworld “tutto è concesso” e anche a Joy e a Nolan. Vien da dire che è semplice abbindolare i fanatici del “rigore logico” quando gli autori stessi giocano a fare gli dei, dove la penna che scrive sottostà alla regole di un mondo creato da essa stessa, dove chi muore può rivivere, chi è in un posto può essere in un altro, chi è in un tempo può non esserci. A Nolan tutto è concesso, ma, forse – per citarlo – questa volta, è lui l’Icaro che si è spinto troppo vicino al sole. In sintesi: è facile che i conti tornino se l’abaco lo costruisci per farli tornare. Ma allora perché Westworld funziona e perché a Nolan viene perdonato tutto? Non di certo per i mosaici arzigogolati, neppure per trattare un tema ormai reiterato come quello dell’autocoscienza hegeliana che si scopre coscienza e che ribalta la logica servo-padrone tra uomo-macchina, ma proprio per quel contrappasso dell’assurdo di cui si accennava poc’anzi e che assume i tratti di un “suicidio programmato della civiltà”, per dirla con le parole di uno storico dei nostri tempi, Eric Hobsbawm.  E’ la messa  in discussione della realtà esistenziale propria dell’essere umano la forza motrice di questi ultimi 8 episodi. Così quando nel mondo creato da Charlotte i residenti (i robot) entrano in contatto con le anomalie (gli esseri umani) anche i primi finiscono col mettere in discussione la loro “realtà esistenziale”.

Del resto i robot non sono che riflessi dei secondi, come gli uomini cercano verità e sono mossi dall’anelito al Sublime, lo stesso elemento trascendente presente  in ogni essere umano, che corrisponde al paradiso per i cristiani, al nirvana per i buddisti, al poter bestemmiare senza sentirsi in colpa per i veneti e così via.  Ma allora, cosa accade nei cyborg quando incontrano l’”umano”? Si suicidano, perché – se pur creati a immagine e somiglianza dell’uomo –  tra  gli uni e gli altri esiste una differenza sostanziale: i primi possono morire, i secondi no. E qui che Nolan si mostra ancora una volta in debito con una delle più grandi menti del XX secolo, Martin Heidegger, secondo cui l’uomo si contraddistingue dagli altri esseri umani proprio per la sua capacità di interrogarsi sulla propria esistenza, perché vive in un tempo e in uno spazio definiti e, soprattutto, esiste nel  mondo e in relazione ad esso. E solo la presa di coscienza della sua morte lo condurrà effettivamente a vivere un’esistenza piena, come progettualità, in funzione della morte, la quale, sola, attribuisce un significato totalmente differente all’Essere. Ed è questa la consapevolezza che i cyborg raggiungono a contatto con le “anomalie”, ma i progetti degli uni e degli altri sembrano presagire la distruzione di entrambe le specie. Per cui le prove dell’umanità non sono ancora terminate: l’Uomo deve superare un decisivo test finale, perché “la vita sulla terra è un fuoco che si consuma da solo e ormai gli esseri umani sono cenere”, ma forse un dio-artificiale concederà loro un’ultima, pericolosa, chance.