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Volevo nascondermi

2020
REGIA:
Giorgio Diritti
CAST:
Elio Germano (Antonio Ligabue)
Oliver Ewy (Ligabue da giovane)
Leonardo Carrozzo (Ligabue da bambino)

Il nostro giudizio

Volevo nascondermi è un film del 2020, diretto da Giorgio Diritti.

Il vibrante biopic di Giorgio Diritti sul pittore Antonio Ligabue, è un film che un po’ di anni fa avrebbe potuto essere diretto da un Ermanno Olmi o da un Pupi Avati: dove il verbo “avrebbe potuto” è da intendersi non nel senso letterale della frase, ma in quanto emanazione di uno spirito epicorico che pregna le opere di questi due maestri del cinema italiano, e di cui Diritti sembra fare tesoro. Protagonista assoluto è un camaleontico Elio Germano, reso irriconoscibile da un trucco magistrale e in grado di incarnare il personaggio con una performance viscerale da metodo Stanislavskij, poi meritatamente premiato con l’Orso d’Argento a Berlino per il miglior attore. Quello di Diritti non è un nome troppo sbandierato nel cinema italiano, eppure è autore di alcune pellicole acclamate dalla critica – Il vento fa il suo giro, L’uomo che verrà, Un giorno devi andare – e con Volevo nascondermi non solo fa incetta di premi, ma conosce anche il plauso del pubblico, per il saper raccontare in modo non convenzionale la biografia di un artista geniale ed emarginato dalla società, la cui vita fu segnata dall’indigenza e dalla pazzia. È un cinema che parla di Arte e che si fa esso stesso Arte, come se la tavolozza dei quadri di Ligabue fosse trasposta anche sul grande schermo, con inquadrature pittoriche e una fotografia pastellata che rendono le immagini simili a quadri. Scritto dallo stesso regista insieme a Fredo Valla e Tania Pedroni, Volevo nascondermi rifugge da ogni didascalismo, e racconta la storia di Antonio Ligabue (Elio Germano) attraverso un susseguirsi paratattico e quasi schizofrenico di sequenze che si muovono avanti e indietro nel tempo, alternando i flashback con la narrazione al tempo presente. Vediamo così sprazzi della sua infanzia a Zurigo, quando viene adottato da una coppia di svizzeri tedeschi, e inizia presto ad accusare quei disturbi psicofisici che lo avrebbero segnato per tutta la vita.

Dopo essere stato cacciato dalla Svizzera, Ligabue si trasferisce nel paesino di Gualtieri, in Emilia Romagna, dove sviluppa la sua passione per la pittura e la scultura, fra autoritratti e bizzarri accostamenti di animali esotici trasposti nella campagna emiliana. La svolta avviene attraverso l’incontro con l’artista Renato Mazzacurati, che lo stimola a coltivare il suo talento e a partecipare a varie mostre, finché Ligabue viene pian piano scoperto e apprezzato dalla critica. Ma la vita del pittore è travagliata a causa dei disturbi fisici e mentali che lo costringono più volte a essere ricoverato in manicomio o in ospedale, dove morirà così come è vissuto, in solitudine, lasciando però un patrimonio artistico di immenso valore. Volevo nascondermi è un’anticonvenzionale biografia di un artista, ma è anche un film sulla malattia mentale – fin dal titolo, la regia mette l’accento sull’emarginazione psico-sociale del protagonista – e sulla vita comunitaria della Pianura Padana, tra fattorie, animali e case popolari. La maggior parte del film è girata infatti in dialetto reggiano, opportunamente sottotitolato, il che lo rende vicino a film come L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi o La via degli angeli di Pupi Avati: perciò non stupisce – anzi, è una piacevole conferma – leggere nella biografia di Diritti che durante la sua gavetta ha collaborato con questi due grandi registi, attraverso esperienze che ne hanno evidentemente influenzato la poetica. La natura povera e lo spirito epicorico – che starebbero bene anche nell’Amarcord felliniano, complici i volti grotteschi e paesani – sono accentuati dall’accostamento fra attori professionisti (ma nessuno famoso, a parte Germano, che domina la scena) e non professionisti, con un effetto di “realismo magico” che trasuda amore verso la materia narrata.

Eppure Volevo nascondermi non è un film favoleggiante, o meglio unisce in modo sapiente il coté da fola popolare con una durezza del narrato che emerge soprattutto durante le crisi di follia di Ligabue e le crude scene all’interno dei manicomi o degli ospedali, che introducono e chiudono il film, oltre a tornare periodicamente nella vicenda. La narrazione, come si diceva, sembra rispecchiare lo stato mentale del protagonista, per cui non è lineare, ma schizofrenica, rapsodica, impressionista, è una narrazione che – grazie a un uso accorto del montaggio – sembra voler annullare la consecutio temporale classica per adottare una sorta di flusso di coscienza che passa in rassegna le fasi più importanti della vita di Ligabue: particolare attenzione è dedicata a personaggi come la madre adottiva, il mecenate Mazzacurati e la contadina Cesarina (unica donna di cui il Ligabue è innamorato), oltre a numerosi caratteri a latere che rendono il film una potente opera collettiva. Diritti non vuole costruire una biografia lineare e didascalica come in un libro di scuola, ma mettere in scena in modo evocativo stati d’animo ed emozioni, e per fare questo si affida innanzitutto a un Elio Germano particolarmente intenso, col suo volto segnato, l’andatura claudicante a causa del rachitismo, gli abiti umili e dimessi, la parlata incerta, che ne fanno una figura inconfondibile. Tutto questo senza però trascurare la messa in scena dell’arte, i quadri e le sculture, che con la loro bizzarria costituiscono una diretta emanazione della mente del protagonista: un processo creativo personale trasposto da una regia altrettanto personale, emozionata ed emozionante.