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Una lucertola con la pelle di donna

1971
Titolo Originale:
Una lucertola con la pelle di donna
REGIA:
Lucio Fulci
CAST:
Florinda Bolkan (Carol Hammond)
Stanley Baker (ispettore Corvin)
Jean Sorel (Frank)

Il nostro giudizio

Una lucertola con la pelle di donna è un film del 1971, diretto da Lucio Fulci.

Estratto dagli archivi di antipsichiatria fulciana: «La psicanalisi è un’enorme fregnaccia inventata dal signor Sigmund Freud, noto cocainomane, per guadagnare soldi facendosi raccontare stupidaggini…». Di tutti gli psicanalisti che popolano il cinema di Lucio Fulci, il dottore interpretato dall’ineffabile (e ubiquo) Jorge Rigaud è senza dubbio il più inetto. Che il Nostro avesse il dente avvelenato contro la psichiatria è notorio, e nel copione di Una lucertola con la pelle di donna, scritto assieme a Roberto Gianviti, non si lascia sfuggire l’occasione di mazzolare per benino i rappresentanti della categoria: qui il buon Rigaud si fa prendere per il naso da un’assassina che vorrebbe servirsi delle teorie freudiane per architettare un’impossibile giustificazione a priori del proprio delitto. «Con quella donna, ha ucciso la parte di lei che si sentiva attratta dalla degradazione e dal vizio», conclude.  Per fortuna che il detective di turno (Stanley Baker, in vacanza dai set di Losey) è più sveglio del solito, e mangia la foglia. Ma è meglio non soffermarsi troppo a fondo sulla trama gialla, ché proprio il tentativo di far quadrare il cerchio è il punto debole di questo whodunit visionario e ghiottamente onirico.

Meglio lasciarsi andare, e godersi lo strepitoso inizio di Una lucertola con la pelle di donna, dieci minuti di Fulci a denominazione di origine controllata da inserire senza indugio in un ipotetico “meglio di…”: Florinda Bolkan che vaga su un treno e si ritrova assediata da corpi nudi e mani brancicanti, la folgorante apparizione di una Anita Strindberg bella da mozzare il fiato, la partitura di un Morricone in vena di sperimentazioni ad incorniciare il tutto. E poi ancora: split screen, soggettive, clamorose invenzioni scenografiche: «il vento irreale e gli accesissimi colori a contrasto con le tenebre assolute di quinta» nella scena dell’omicidio, come evidenziava Davide Pulici nel Nocturno Book dedicato al giallo; l’immagine post-mortem della Strindberg riversa sul letto, circondata dagli imperturbabili agenti della scientifica intenti a scattar foto e cercare impronte digitali, verrà ripresa pari pari in Rivelazioni di un maniaco al capo della squadra mobile di Bianchi Montero. A conferma della capacità del regista di inserirsi in un filone e farlo proprio, stilisticamente e tematicamente, in Una lucertola… c’è tantissimo del Fulci-pensiero, a partire dalla tormentata figura di donna su cui il film è incentrato. La Bolkan uccide per occultare la vera natura della propria sessualità, ma il suo gesto omicida dà il via ad una inarrestabile reazione a catena che porterà alla distruzione della rispettabile famiglia altoborghese della donna, facendo emergere la fragilità degli equilibri su cui essa si fonda (mirabilmente espressi nello split screen che contrappone le orge della Strindberg all’artificiosa compostezza del desco dei vicini): viene alla luce la relazione extraconiugale del marito, la figliastra (Ely Galleani) e il padre (Leo Genn) trovano la morte.

Non solo: da quel momento, è la stessa donna a pagare un prezzo altissimo per il proprio delitto, divenendo vittima dello stesso meccanismo da lei innescato, continuamente in fuga da ossessioni e fantasmi che si materializzano ovunque (come nella famigerata sequenza della clinica: i volpini vivisezionati di Rambaldi oggi fanno un po’ pena, ma all’epoca ebbero lo stesso effetto degli internettiani bonsai-kitten che ad intervalli regolari provocano vibrate proteste tra i naviganti) e destinata al dolore, alla paura e all’umiliazione. Fino a vedere il proprio segreto svelato e, con l’arresto, la propria condizione di “anormalità” esposta pubblicamente. Crudele e limpido come un teorema. Postilla fulciana: «Con la psicoanalisi ti puoi conoscere, mi dicono. Ma io non mi voglio conoscere. Io mi voglio svegliare ogni giorno non sapendo chi sono»