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Tutte le mie notti

2018
REGIA:
Manfredi Lucibello
CAST:
Barbora Bobulova (Veronica)
Benedetta Porcaroli (Sara)
Alessio Boni (Federico Vincenti)

Il nostro giudizio

Tutte le mie notti è un film del 2018, diretto da Manfredi Lucibello.

Il cinema italiano indipendente è un marasma in cui si rischia di rimanere impantanati se non si sta attenti, talmente tanti sono i titoli che saltano fuori quasi ogni giorno. Basta fare un giro tra i gruppi fandom sui social – che, per inciso, sono uno dei mali del nostro cinema – per rendersene conto. È dunque una sorpresa ancora più bella quando si incontra un film a basso/medio budget che può competere con i modelli produttivi maggiori, in quanto a estetica, storia, interpretazioni. Sul pacchetto cinema di Sky ci si è imbattuti in Tutte le mie notti, opera prima di Manfredi Lucibello, prodotto dai Manetti Bros – due tra i più rappresentativi e lodevoli modelli dell’indie nostrano – e presentato alla Festa del Cinema di Roma. Un film che parla di un enigma, anzi di enigmi. Un film che è esso stesso un enigma, nell’accezione positiva del termine: trasversale ai generi, rispettoso dei modelli ma in grado di proporre qualcosa di nuovo. È difficile parlare di Tutte le mie notti senza fare qualche rivelazione, pena il fatto di parlare del nulla – ma non temano i nemici dello spoiler, saranno il più possibile limitati. La storia, scritta dal regista insieme ad Andrea Paolo Massara, inizia con una giovane ragazza (Benedetta Porcaroli) in fuga, ferita e terrorizzata. Sara – così scopriremo chiamarsi – viene raccolta in macchina da una donna, Veronica (Barbora Bobulova), che la soccorre e la porta nella sua grande casa. Quello che sembrava un incontro casuale, si rivela però essere qualcosa di diverso: la giovane aveva partecipato a un festino a base di sesso e droga nella villa di un uomo d’affari (Alessio Boni), e ora è in fuga, convinta di aver assistito a un omicidio.

E Veronica è l’avvocato dell’insospettabile professionista, che ha il compito di accomodare la situazione: ma non sarà così semplice. Tutte le mie notti è un thriller psicologico, uno psicodramma dalle chiare ascendenze polanskiane: buona parte del film è giocato infatti sulle due bravissime attrici (perché, ricordiamolo, nel cinema o sei Robert Bresson oppure hai bisogno di attori veri), sul loro confronto e scontro, per cui vengono in mente in primis film di Roman Polanski come Quello che non so di lei e Venere in pelliccia. Lungo tutto il film ci sono soltanto tre attori – più una quarta, Carolina Rey, che compare in una sorta di flashback – dei quali il torvo Alessio Boni appare in poche scene, seppur determinanti, essendo il deus ex machina di tutta la storia. Il film dura poco, un’ora e venti compresi i titoli, ma è scritto e diretto con le giuste proporzioni: la vicenda è costruita fondamentalmente sui dialoghi, incisivi e mai banali, che permettono di scavare nella mente delle due protagoniste e nell’enigma che viviamo insieme a loro, fino a rivelare verità sconcertanti. Il fatto che Veronica nasconda qualcosa non è una sorpresa, poiché scopriamo presto che la grande ed elegante villa non è casa sua, e che la donna non è lì per caso. Disvelamento del mistero e indagine psicologica procedono a braccetto, diventando inscindibili l’uno dall’altra, in un gioco pericoloso intriso di fragilità e paranoia dove non capiamo bene chi è la vittima e chi è il carnefice – se, vogliamo, siamo un po’ anche dalle parti della Baby Jane di Robert Aldrich.

Fra le due donne – la matura e forte Veronica opposta alla giovane e debole Sara – si crea un legame ambiguo di conflitto e complicità, persino morboso in certi momenti, ma che non sfocia mai (purtroppo) in lesbismo – “purtroppo” per gli occhi dello spettatore s’intende, non per la sceneggiatura, che è perfetta così. Tutte le mie notti, che come da eponimo si svolge quasi interamente in notturna, è permeato di erotismo morboso e di perversione – non tanto per quello che vediamo (un paio di nudi della Porcaroli), ma per quello che viene narrato: il contesto sociologico non è affatto scontato, facendo riferimento alla piaga della prostituzione giovanile (la protagonista ricorda la Giovane e bella di François Ozon) e ai vizi di uomini insospettabili. La regia riserva un’attenzione speciale anche all’estetica, un altro elemento che spesso latita nell’indie italiano. La forma è curata come la sostanza, grazie a una fotografia cinematografica e a un uso creativo della musica, che bilancia suspense e vocalizzi: pensiamo all’immagine iconica (usata poi per la locandina) della Porcaroli nuda, di spalle, immersa nella vasca da bagno, con un rigagnolo di sangue lungo la gamba; oppure ad alcune scene argentiane, quella iniziale in strada e quelle nel parco della villa, illuminato dai lampioni; oppure ancora agli interni con le luci calde che disegnano ambienti e volti; per concludere con suggestioni al neon quasi refniane.