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The Lonely Hearts Killers

2014
Titolo Originale:
Alléluia
REGIA:
Fabrice du Welz
CAST:
Lola Dueñas (Gloria)
Laurent Lucas (Michel)
Héléna Noguerra (Solange)

Il nostro giudizio

The Lonely Hearts Killers è un film del 2014, diretto da Fabrice du Welz.

Fabrice du Welz è un tipo tosto. Ma veramente tosto. Uno che, non si sa bene come e perché, qualunque cosa inquadri col suo talentuoso e impietoso obiettivo finisce per assumere un autentico valore artistico. Che siano le indicibili torture fra le fresche e sanguinolente frasche di Calvaire, l’ostinata ricerca del figliol scomparso in quel della selvaggia Tailandia di Vinyan piuttosto che la temibile vendetta di un tranquillo tassista protagonista di Message from the King, il belga pazzo riesce sempre e comunque a imprimere a ciascuna della proprie opere un inconfondibile stile fatto di crudeltà, erotismo e finissimo gusto estetico. Uno insomma che non la manda di certo a dire, abituato a fare sempre e comunque come cacchiarola gli pare e piace. Personaggio che non si fa il ben che mino scrupolo nel lasciarsi ispirare in maniera libera e beata da uno dei fatti di cronaca più celebri e truculenti dell’America di fine anni ’40, trasfigurandolo in una morbosa, tossica e letale love story all’ombra degli insidiosi tempi di Tinder. Ed è proprio di amore che in fin dei conti The Lonely Hearts Killers ci favella: di un amore talmente profondo e incondizionato da risultare, a conti fatti, più che mai mortale, tanto per coloro che lo offrono quanto per coloro che lo ricevono. Un dramma in cinque atti nel quale un uomo e quattro donne avranno modo di far emergere quanto di più torbido e morboso l’umanità ha da offrire su di un piatto d’argento, distribuito, finalmente, in Italia dalla Midnight Factory.

Ed è appunto a quei due folli scriteriati di Martha Beck e Raymond Fernandez che il buon du Welz sceglie di prestare attenzione per plasmare i due affascinanti e ignobili protagonisti della sua altrettanto spietata pellicola, il cui titolo originale Alléluia ben esemplifica la natura quasi religiosa che le gesta di questi svalvolati Natural Born Killers finiscono per assumere agli inermi occhi dello spettatore. Esatto gente, proprio loro, i celeberrimi “assassini dei cuori solitari” che, tra una truffa e l’altra, seminarono il terrore fra i salotti delle ricche e attempate vedove durante la presidenza Truman. Ma attenzione, perché, a differenza del realismo scorsesiano di Leonard Kastle con il cultissimo I killers della luna di miele (1970) e della suadente rilettura in chiave noir di Todd Robinson con Lonely Hearts (2006), The Lonely Hearts Killers sceglie di riprendere le morbose atmosfere del Profundo Carmesi (1996) di Arturo Ripstein per gettarci a capofitto in una gelida contemporaneità nella quale la timida Gloria (Lola Dueñas) tenta di rimettere assieme i cocci della propria disastrata esistenza fra un matrimonio naufragato, uno sconfinato amore per la figlioletta e un monotono lavoro in obitorio. Ma ecco che, chattando un po’ di qui e un po’ di là,  l’incontro con Michel (Laurent Lucas), misterioso e affascinante seduttore, innamorato tanto del gentil sesso quanto dei vecchi film con Humphrey Bogart, pare darle la giusta svolta. Nonostante le terribili inclinazioni da Monsieur Verdoux del tenebroso compagno vengano  presto a galla, la donna sceglierà di rimanergli accanto con un ardore se possibile ancora maggiore, accompagnandolo in qualità di fittizia sorella durante la sua caccia alle più ricche signorinelle disponibili sulla piazza, le quali inizieranno a perire una dopo l’altra proprio sotto i colpi di una gelosia tanto crescente quanto spietata.

Inizia e finisce con la pulizia di un corpo The Lonely Hearts Killers. In principio un corpo morto e in conclusione uno che, seppur ancora vivo, di lì a poco cederà il passo al Tristo Mietitore. Una circolarità che richiama alla mente il Post mortem di Pablo Larrain, rimettendo al centro della discussione la carne – calda o fredda che sia – quale simbolo di un’umanità tanto idealmente sacra quanto oggettivamente e tristemente profana. Pur non lesinando certo in emoglobina, il buon du Weltz sceglie di prestare un’attenzione quasi morbosa all’evoluzione del rapporto malato tra i suoi due personaggi, con una progressiva e inesorabile inversione di ruoli che vede l’inizialmente fragile Gloria trasformarsi ben presto in una mantide religiosa pronta a smembrare ogni femminino ostacolo tra lei il suo Michel, quest’ultimo sempre più incapace di gestire la gelosissima furia omicida della propria compagna. Per documentare tutto ciò il regista sceglie di tallonare i volti di questi due casi umani con inquadrature che difficilmente abbandonano i soffocanti margini del primo piano, lasciandosi tuttavia sporadicamente andare a suggestive e sequenze lisergiche che richiamano gli universi video artistici di Refn e, perché no, anche Noé. Con un erotismo che spinge licenziosamente per scavalcare il fragile confine del soft core senza tuttavia saggiamente mai abbatterlo, il film gioca coi sensi dello spettatore, immergendolo quanto più possibile nei torbidi abissi di un mal d’amore che proprio attraverso la carnalità trova il suo fulcro, nel quale sangue, sudore, saliva e sperma non fanno altro che cementare un rapporto ai limiti della follia sul quale tuttavia appare stranamente difficile esprimere una lucida opinione. D’altronde lo scaltro du Weltz non è mai stato interessato ad esprimere una vera opinione su ciò che è chiamato a filmato, ma piuttosto a presentarci i fatti dal suo personalissimo punto di vista, tanto nudi e altrettanto crudi come mamma li ha fatti.