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The French Dispatch

2021
REGIA:
Wes Anderson
CAST:
Benicio del Toro (Moses Rosenthaler)
Frances McDormand (Lucinda Krementz)
Jeffrey Wright (Roebuck Wright)

Il nostro giudizio

The French Dispatch è un film del 2021, diretto da Wes Anderson.

Protagonista di una vicenda distributiva travagliata da continui rinvii a causa pandemia, The French Dispatch segna il ritorno di Wes Anderson al live action dopo il lungo d’animazione L’isola dei cani e, se possibile, alza ulteriormente l’asticella del sovraccarico stilistico e narrativo che già connotava il precedente Grand Budapest Hotel. A un cast sempre più affollato e stellare, infatti, corrisponde una miscela sempre più variegata di generi, forme e rimandi cinematografici, che ne fanno una delle opere sin qui più smaccatamente cinefile del regista natìo di Houston. Una cinefilia attestata dalla corposa lista di film raccomandati alla troupe durante le riprese, dove spiccano, oltre all’immancabile I 400 colpi, anche titoli di Godard e Clouzot, Renoir e Tati, a testimoniare la volontà di fare un “film francese”, che si traduce di fatto in un rimpasto insieme posticcio e personale delle svariate pellicole citate e omaggiate. Parimenti, a risultare tipizzata fino all’iperrealismo è la ricostruzione della Francia del dopoguerra, filtrata sì da uno sguardo nutrito a pane e cinema, ma non solo: a plasmare l’immaginario andersoniano sono anche una miriade di riferimenti letterari e culturali, a partire dal celebre “New Yorker”, ispirazione dichiarata del “French Dispatch”, supplemento settimanale di un fittizio periodico statunitense con sede a Ennui-sur-Blasé, altrettanto fittizia cittadina d’oltralpe.

Strutturato antologicamente come un film a episodi, The French Dispatch si presenta come la messa in scena degli articoli raccolti nell’ultimo e commemorativo numero della rivista, costretta a chiudere per volontà testamentaria del defunto direttore. Così, a succedersi sullo schermo sono, nell’ordine: un’incursione nei quartieri di Ennui-sur-Blasé a opera di un cronista in bicicletta; la parabola artistica di un pittore galeotto innamorato della sua musa-secondina; un resoconto dei moti studenteschi del Maggio Francese imperniato sulla stesura di un manifesto rivoluzionario; un reportage gastronomico su un cuoco poliziotto che vira in un’avventura a tinte noir. Affascinato per sua ammissione dai racconti di pura finzione che aprivano il “New Yorker”, Anderson sembra interessato non tanto a tributare un canonico omaggio al giornalismo, quanto a esaltare il potere stesso della narrazione, a celebrare l’inventiva e libertà espressiva che animavano le storiche firme dell’amato periodico (i cui nomi scorrono a mo’ di nota a piè di pagina sui titoli di coda). E per farlo, come in un gioco di specchi, sfodera il suo indomabile estro creativo, sfruttando tutto il suo armamentario stilistico, adottando soluzioni sempre più ardite, come repentini passaggi dal colore al bianco e nero, continui cambi di formato e un inserto in animazione 2D ricalcato sul Tintin di Hergé.

Portando all’estremo la sua inconfondibile estetica, Anderson confeziona l’ennesima opera destinata a dividere, ad alimentare le riserve di quanti s’interrogano sul senso ultimo di un’impresa cinematografica che pare trovare la sola ragion d’essere nella riproposizione puntuale ed elevata al quadrato dei propri stilemi. Ora, se questo esasperato formalismo sia indice di una visione ormai esausta, implosa in un manierismo tanto compiaciuto quanto vacuo, oppure – come suggerisce acutamente Ilaria Feole nella sua recensione alla pellicola – espressione di una poetica che dello stile fa sostanza e che sottende una sincera e disperata dichiarazione di resa, d’incapacità di cogliere la realtà se non in modo mediato, attraverso «un bagaglio di già visto-già letto» (“Film Tv” 45/2021), resta una questione aperta. Ai posteri l’ardua sentenza, verrebbe da dire. Più banalmente, sta allo spettatore decidere se passare oltre oppure concedersi un altro giro di giostra nel parco a tema allestito dall’autore texano, del quale tutto si potrà negare ma non l’inesauribile vis affabulatoria e immaginifica. Questa sì, puro cinema.