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The Devil’s Candy

2015
Titolo Originale:
The Devil’s Candy
REGIA:
Sean Byrne
CAST:
Shiri Appleby (Astrid Hellman)
Kiara Glasco (Zooey Hellman)
Deborah Abbott (Teacher)

Il nostro giudizio

The Devil’s Candy è un film del 2015, diretto da Sean Byrne.

Il regista australiano Sean Byrne, che nel 2009 ci aveva piacevolmente turbato con il torture-porn-romantico The Loved Ones, si è trasferito in America confrontandosi con una tradizione che nella patria di Stephen King è ben più che una consuetudine. Il genere “case-infestate/possessione demoniaca”, da Amityville Horror (1978) in avanti – ma anche prima, con Gli invasati di Wise, La casa d’inferno di Richard Matheson, eccetera eccetera – è qualcosa di talmente radicato nella cultura americana da essere parte integrante della società stessa. Sono così numerosi i prodotti cinematografici costruiti intorno a quel modello che sembra quasi impossibile pensare a qualcosa di nuovo, di stimolante o anche, semplicemente, di diverso. Eppure, con The Devil’s Candy, Byrne ha compiuto un altro (piccolo) miracolo. Incipit. Pruitt Taylor Vince (il ciccione con gli occhi che non stanno mai fermi di Identity) si sveglia in piena notte, nella sua cameretta. Il crocefisso appeso sopra il letto si gira a testa in giù, una nenia, come voci in qualche lingua arcana, si ode nel silenzio della notte. Ma forse quelle voci sono solo nella sua testa.

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L’uomo si alza, afferra la chitarra elettrica, e “braaaang, braaaang”, comincia a strimpellare sulle corde suoni disarticolati che escono a tutto volume dalle casse dell’amplificatore. Accorre la madre, tutta preoccupata, e lui le fracassa la testa con la chitarra. Cut. Qualche anno dopo. Una nuova famiglia – padre pittore e metallaro, Ethan Embry, madre comprensiva e innamorata, Shiri Appleby, figlia ribelle e metallara pure lei, Kiara Glasco – si trasferisce nella casa del massacro. All’inizio la vita scorre tranquilla, con il padre che, anzi, pare aver ritrovato l’ispirazione perduta; anche se adesso i suoi quadri hanno un qualcosa di inquietate e oscuro. Poco male, perché alle gallerie sembrano piacere, e le quotazioni salgono. La sua ossessione per il lavoro, però, lo porta ad astrarsi dalla quotidianità e la famiglia ne risente. Lui sembra non poterne fare a meno, ma le cose precipitano la notte in cui Vince decide di tornare a casa…

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Detta così, sembra sempre la stessa menata, eppure Byrne, in qualche modo, riesce ancora a sorprendere. Un po’ perché il frullato di generi, tra slasher e possession movie, funziona bene; ma soprattutto perché Byrne sa come costruire la scena, guardando più al linguaggio del passato che non ai montaggi frenateci alla Jason Blum (tanto per citare uno che va per la maggiore), rendendo anche le situazioni più trite e ritrite per nulla banali. Si prenda ad esempio la scena in cui il serial killer fa a pezzi il bambino rapito nel parco, inframmezzandola al raptus artistico del padre che imbratta di rosso l’ ultimo dipinto. Il colore si stempera nel sangue, mentre l’arma da taglio cala sulla vittima come il pennello sulla tela, in un gioco di rimandi che affascina ed esalta. E poi c’è la musica metal, che in un prodotto del genere potrebbe risultare almeno demodé e che, invece, trova una propria ragion d’essere tanto da diventare elemento imprescindibile della narrazione. Volendo spaccare il cappello in quattro, si potrebbe obbiettare sul finale, che non mantiene proprio tutte le premesse di cattiveria proposte, ma non è il caso di fare i pignoli. The Davil’s Candy è Rock ‘n Roll.