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The Blackening

2023
REGIA:
Tim Story
CAST:
Grace Byers (Allison)
Jermaine Fowler (Clifton)
Melvin Gregg (King)

Il nostro giudizio

The Blackening è un film del 2023, diretto da Tim Story.

Chi più e chi meno, a fare i seri son buoni tutti. Ma per gettarla alle ortiche – o in vacca, qualora non si fosse vegani – ci vuole del metodo. Qualcuno direbbe persino del talento. Soprattutto quando tra le mani ti ritrovi una patatona bollente come la blackness: spinosissima e caldissima questione al centro di parecchi mal di pancia fin giù nel ventre molle della suscettibile filosofia #BlackLivesMatter, per la quale il concetto di autoironia risulta più che mai problematico se filtrato con la sottilissima e distorta lente del politically (un)correct. E se è vero che il caro vecchio Tim Story – tra tutt’altro che Fantastici 4, bercianti barbieri, poliziotti più o meno in prova, smielose guerre dei sessi e un improponibile Chi ha incastrato Tom & Gerry? – di talento non ne ha mai avuto né dimostrato poi molto, stavolta il coraggio non sembra certo essergli mancato nel prendere la bislacca (e rischiosa) idea alla base di uno scomodissimo cortometraggio targato 3Peat per convertirla, senza troppi complimenti, in una grottesca, irriverente e quanto mai provocatoria horror comedy come The Blackening; così fuori dalle sue consuete corde da valergli una pacca sulla spalla anche solo per il tentativo.

Partendo da una premessa squisitamente sovra, capace tuttavia di trasmutarsi in un qualcosa di decisamente più naturale con lo scorrere dei rocamboleschi novanta minuti, questa cinematografica boutade ideata dalla penna dei fidi Tracy Oliver e Dewayne Perkins si rivela dunque fin da subito una piccata e pungente satira macchiata di sangue sugli stereotipi di genere e del genere che, giocando abilmente con i mille cliché tanto della cultura woke quanto della paura su grande e piccolo schermo, ci presenta su di un piatto di acciaio inox piuttosto che d’argento le disavventure di un rampante gruppo di ex amiconi del college, decisi a festeggiare in santa e afroamericana pace il tanto atteso Juneteenth (la celebrazione yenkee in ricordo della fine della schiavitù) all’interno della solita oscura e beneamata Cabin in the Woods. Ma così come l’ansiogeno e a suo modo scioccante incipit già ci chiarisce a neanche cinque tocchi di lancetta d’orologio, i nostri sgallettati figli spirituali di Malcom X e Willy il principe di Bel-Air si preparano a vivere tutto fuorché un’accogliente e spensierata seratina, soprattutto dopo aver scovato nel polveroso scantinato della sinistra casupola un misterioso e più che mai equivoco gioco da tavolo – una sorta di Trivial in versione all black – in cui, attraverso un disturbante timer parlante e senziente in odor di blackface, dovranno lottare per la loro morte o salvezza rispondendo a una serie d’incalzanti e insidiose domande di cultura pop afroamericana.

Ben sapendo che, per ogni risposta sbagliata, l’Uomo Nero, quello vero, sarà in agguato dietro l’angolo, pronto per chiedere la sua sfrigolante libbra di carne al sangue. Ma a ben vedere, acquattato dietro ogni angolo di questo The Blackening, sembra piuttosto celarsi un tutt’altro che involontario effetto Scream – o Scary Movie, tanto sinonimica è sempre la natura di entrambi –, stemperando in un più che mai letterale black humor situazioni di suspense granduignolesca che, nelle mani di un Deon Taylor o anche di una giovane e promettente Nia DaCosta, avrebbe certamente accantonato lo spirito comedy per virare su versanti più convintamente de paura. Ma il caro Story, si sa, non è mai stato neanche per sbaglio un praticante del credo orrorifico, preferendo impiegare la più che mai abusata tematica del gioco maledetto – tornata recentemente in voga grazie a curiose operazioni come Behind the Gate, Game of Death e Choose or Die – come puro e semplice specchietto per le cinefile allodole, parlandoci in realtà di discriminazione (esterna quanto interna), di identità etnica e di quale sia oggigiorno il migliore e più accettato grado di blackening, tanto nel cinema horror quanto nella stessa African-American community. Il tutto senza paura di sfoggiare provocatoriamente (e, per una volta, autoironicamente) quella famigerata N-Word tanto cara a Tarantino quanto bistrattata dall’ortodosso Spike Lee. Ne vien fuori, dunque, un qualcosa di veramente unico e paradossale, a metà strada fra una bislacca puntata di Piccoli Brividi idealmente diretta da Jordan Peele e un’irriverente parodia da intervallo del Saturday Night Live, tutt’altro che perfetta nella sua forma così come innegabilmente zoppicante in molte oscure aree del proprio contenuto; ridondante nel suo messaggio di fondo e, forse, non poi così rivoluzionaria come vorrebbe disperatamente far crede. Ma se il ridacchiare a denti un po’ troppo stretti si rivela di fatto l’unico vero suo demerito, beh, si può ben dire che il caro Tim è riuscito ancora una volta a sfangarla. Più nel bene che nel male, a dirla tutta.