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The Angry Black Girl and Her Monster

2023
REGIA:
Bomani J. Story
CAST:
Laya DeLeon Hayes (Vicaria)
Denzel Whitaker (Kango)
Chad L. Coleman (Donald)

Il nostro giudizio

The Angry Black Girl and Her Monster è un film del 2023, diretto da Bonami Story.

Nella vita tutto passa e se ne va: il tempo, lo spazio, le mode, i governi e persino la ricetta del gnocco fritto. Ma solo i grandi classici rimangono sempre e per sempre. Opere eterne e immortali che, per quanto possano essere lette, rilette e stralette, continueranno ad apparire fresche e fragranti quanto una bella cheesecake appena impattata. E sé è vero che, come pontificava il buon Italo Calvino, la lettura di un classico è sempre e comunque una rilettura, allora non stupisce più di tanto che un grande classicone del gotico tout court come il Frankenstein di Mary Shelley, già protagonista di infinite incursioni all’interno di grandi e piccoli schermi, venga nuovamente rispolverato e chiamato in causa, al sonoro e ben noto grido di It’s (still) Alive! Ma non semplicemente vivo, sia chiaro, bensì vivo vivo! Stavolta, manco a dirlo, ben condito in salsa Black Lives Matter e rosolato a dovere nel ruvido pan grattato dell’agguerrita woke culture, dalla quale il turbolento Bonami Story sceglie di pescare a pienissime e graffianti mani per dar vita al suo interessante seppur indubbiamente problematico The Angry Black Girl and Her Monster.

Un titolo che, così come fu per il suadente A Girl Walks Home Alone at Night, appare decisamente tutto un programma, mettendo fin da subito in chiaro quelli che saranno i due autentici protagonisti di questa oscura e morbosa storiella di vita, morte e rivalsa in un’ennesima attuale periferia a stelle e strisce macchiata dalla discriminazione, dalla povertà, dai polizieschi soprusi, e, ovviamente, dalla sempreverde violenza venduta in bustine un tanto al grammo nei vicoli bui e agli angoli delle strade. In primis abbiamo lei: la giovane, ferita e rancorosa Vicaria (Laya Hayes), autentica Angry Black Girl segnata a tal punto dall’implacabile falce della Cupa Mietitrice – rea di averle strappato a tradimento tanto l’amata madre quanto l’adorato fratello Chris (Edem Atsu-Swanzy) – da dedicarsi anima e corpo ad avanguardistici quanto eticamente discutibili studi scientifici fai-da-te. Poiché, se è vero che la morte è, in un certo qual modo, una malattia, allora deve esistere la cura per debellarla, giusto? Ed è qui che entra in gioco lui: quell’unico ed inimitabile Monster che altri non è se non il fu redivivo fratellone, ricucito alla bell’e meglio dall’incauta Baronessa Frankenstein in zaino e treccine afro e riportato di peso dall’Altrove grazie ad una bella doccia di elettricità statica; implacabile come una versione rasta del mastodontico Michael Myers di zombiana memoria e vendicativo quanto un Candyman sfigurato dagli eccessi del botox.

Un gran macello, insomma. Esattamente quello che il nostro deformato e incattivito Prometeo post-moderno dispenserà a destra e a manca dopo essere stato così innaturalmente strappato dal suo dolce eterno sonnellino, costringendo la nostra imberbe Mad Doctor a tentare di arginare i disastrosi effetti collaterali della propria nefasta scoperta, senza tuttavia poter contare sull’aiuto dell’ingobbito Igor d’ordinanza. Se già il vecchio shelleyano adagio che vuole “mostro colui che come tale dagli altri viene trattato era già stato ampiamente sviscerato – così metaforicamente come letteralmente – tanto dal tecno-fantascientifico Frankenstein partorito dalla stampante 3D di Bernard Rose quanto dallo stressatissimo post-traumatizzato Depraved di Larry Fessenden, ciò che lo scaltro e ben attento Story cerca di fare con il suo The Angry Black Girl and Her Monster è di creare un chiaro quanto inevitabile parallelismo con la difficile condizione della popolazione afroamericana all’ombra del cappellaccio dello Zio Sam. A tal punto vessata, sminuita e ancor oggi stigmatizzata da non poter fa altro che incarnare appieno il distorto ruolo sociale che gli viene così impudentemente appioppato. Dando adito, insomma, alla famigerata teoria della profezia che si auto avvera. Si perché, mettendo da parte una sceneggiatura non certo esaltante e una regia inspiegabilmente restia nell’osare laddove l’orrore, quello vero, avrebbe potuto più che abbondatamene inzaccherare lo schermo, alla fine della fiera rimane sempre e comunque il vecchio spauracchio dell’Uomo Nero da offendere più che difendere, sul quale penne e obiettivi ben più illustri si sono già da tempo spesi. Certo, di Jordan Peele ce n’è uno e uno soltanto. Ma, ehi, come diceva a suo tempo qualcuno di sospetto in tempi non così sospetti: potrebbe sempre esser peggiopotrebbe piovere, no?