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Squatter

2019
Titolo Originale:
Furie
REGIA:
Olivier Abbou
CAST:
Adama Niane (Paul Diallo)
Stéphane Caillard (Chloé Diallo)
Paul Hamy (Mickey)

Il nostro giudizio

Squatter è un film del 2019, diretto da Olivier Abbou.

Come spesso e purtroppo accade, il titolo originale è quello più adatto. La furia è caos dove prima c’era l’ordine, come uno Stato civile e democratico che retrocede a stato di natura. La rabbia d’altronde è una componente fondamentale di questi tempi in cui i vari sovranismi e populismi stanno facendo breccia nelle incertezze e nelle insicurezze delle persone. Squatter (ovvero Furie) è un film politico, e proprio per questo potrebbe non piacere a tutti. Non perché sia eccessivamente didascalico o dichiaratamente schierato, ma per il suo pessimismo di fondo e per la sua mancanza di indulgenza. Ciò lo rende uno dei migliori titoli Netflix dell’ultimo periodo, facilmente vendibile come un home invasion ma non altrettanto nei contenuti. I richiami e le citazioni sono diverse, anche se prevale, specie nell’ultima parte, l’accostamento con la saga The Purge, ormai definitivamente prodromo di questa nuova ondata di slasher a sfondo sociale, da ispiratore in positivo e non marchio da replicare ad libitum.

Paul Diallo è un personaggio potente: un insegnante nero e borghese, pacifico ed inibito. Di ritorno dalle vacanze con la moglie Chloé e il figlio Eric, scopre che la sua abitazione è stata occupata abusivamente dalla babysitter del figlio e dal suo compagno, due persone sfrattate a cui aveva offerto di stare in casa sua per tutto il tempo del suo viaggio. A causa di un cavillo giuridico, non gli viene riconosciuto il diritto di riappropriarsi della sua abitazione ed è quindi costretto a dover stare in un campo caravan, in attesa che la situazione si sblocchi. Le tensioni con sua moglie e il legame instaurato con Mickey, il violento proprietario del campo, cambieranno completamente le sue idee e il suo carattere, convincendolo di doversi riprendere ciò che è suo con la forza. Un borghese piccolo piccolo, insomma, che insegna ai suoi studenti il giusnaturalismo secondo John Locke mentre vede quello stesso pensiero venire meno di fronte al precipitare della sua esistenza. La regia di Olivier Abbou indugia a lungo sui primi piani di Paul e degli altri protagonisti: sguardi che raccontano più di qualsiasi dialogo. Progressivamente però, attraverso una fotografia più innaturale, quei volti sembrano calare in un “mondo nel mondo” più selvaggio e traballante. Sono i primi sintomi della svolta orrorifica, di quella resa dei conti in cui la tensione esplode nella violenza più efferata. Un momento sicuramente catartico, di piacere, atteso. Non solo per il pubblico.

Squatter compie diverse scelte, tra cui alcuni difetti che tuttavia sono limitati ai dettagli: a volte troppe informazioni, quando l’immagine parla da sé. Si esprime infatti meravigliosamente, nel momento in cui le esitazioni e le incertezze tengono aperte le diverse opzioni. O anche quando uno sguardo ti fa comprendere che l’idea che cullavi durante la visione, ma non ritenevi possibile, si sta effettivamente realizzando. Non siamo dunque dinanzi ad un film che vuole banalmente creare delle dicotomie di bene e male o di giusto e sbagliato, piuttosto ad un racconto che nasconde, si perde ed infine si esplica crudamente. I minuti finali, quelli che concludono l’exploitation e offrono la chiosa sono esemplari: un elemento (uno sguardo) chiave subito susseguito ad una citazione fin troppo banale. Infine la coda, magistrale, in cui si accetta amaramente la fine dell’illusione lockiana: l’uomo trova nello sfogo la strada per ripristinare l’armonia. Parafrasando Tarantino, il leone si è ricongiunto al suo branco e tutto va bene nella giungla della civiltà.