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Sogni di gloria

2014
Titolo Originale:
Sogni di gloria
REGIA:
John Snellinberg
CAST:
Gabriele Pini
Xiuzhong Zhang
Carlo Monni

Il nostro giudizio

Sogni di gloria è un film del 2014, diretto da John Snellinberg.

Se si dice “Collettivo John Snellinberg”, pochi sanno di cosa o di chi si parla. Se si dice La banda del brasiliano, tra il settanta e l’ottanta per cento di chi legge in questo momento, è informato dei fatti. Ci sono dei pratesi, nel senso di Prato, Toscana, Italia, comune di 192.130 abitanti, seconda città della regione, sindaco PdL dal 2009, che si sono messi a fare cinema, qualche anno fa. Corti e un lungo, appunto La banda. Anzi due, perché ora ne hanno fatto un altro, che si chiama Sogni di gloria.

I francesi hanno un verbo, éclater, che vuol dire esplodere, divampare. Ecco, per La banda del Brasiliano è lecito l’uso di éclater: il film, diciamo il filmetto – senza deminutio: -etto solo perché fatto con poco – esplose come fenomeno nel 2009, affrancandosi da una ricezione puramente pratese e zone circonvicine, per arrivare un po’ dovunque nello Stivale. Cecchi Gori lo distribuisce in home video, con occhio lungo. Va bene. Diventa un fenomeno. Gli Snellinberg, gli artefici del collettivo, han pochi soldi, magari, ma le idee, in compenso, ricche e chiare: riesumano la “poliziotteschità”, l’essenza midollare dei vecchi film di Castellari, Lenzi, Martino, e attorcigliano il tutto su una storia di precari disperati che diventano spietati sequestratori. D’accordo, spietati magari è troppo, ma il concetto è quello. Ora siamo di nuovo a parlarne, del Collettivo, perché sta per uscire il loro secondo lungo – cortometraggi in mezzo parecchi: cercate su YT The Day Before the Day After –, che si intitola Sogni di gloria.

Piacevole, fatto bene, non c’entra niente con La banda e con il poliziesco. Cioè, c’entra perché la stessa mano, lo stile, li identifichi. Ma questo è una commedia, fatto come i movie-movie, che vuol dire metà film una storia e metà un’altra. Le commedie a episodi, si chiamavano. Telefono a Patrizio Gioffredi, come dire l’anima del collettivo e l’intelligenza pragmatica del medesimo – di più non specifichiamo, se no non firmavano come collettivo, no? Il film ha marciato bene – mi spiega. Al Rome Indipendent Film Festival è stato premiato e meno di un mese fa nel Texas a Houston (titolo Daydreaming) l’hanno riconosciuto nel festival locale (World Fest International) come miglior film e miglior montaggio. Ma in che senso la commedia degli anni Settanta? «No, non ci sono riferimenti puntuali e ossessivi al genere, come era nella Banda. Qui è una cosa di diversa, più libera.

Un incontro che ci ha influenzato è stato quello con Mario Monicelli. Ci raccontò una cosa che raccontava spesso, come la speranza ti possa fregare, come sia un’arma micidiale nelle mani di quelli che comandano, del Potere. In sede di scrittura e di ideazione di Sogni di gloria, abbiamo tenuto questo concetto come una guida». Nella prima storia, Gabriele Pini è un trentenne impiegato in un posto dove la lotteria decide chi lavora (letteralmente), il quale viene convinto da un amico anarchico a sbattezzarsi. In famiglia per fargli cambiare idea, sono disposti a tutto.Veramente a tutto. Nella seconda, un cinese (Xiazhong Zhang, scultore nella vita) è introdotto al gioco della briscola come educazione allo stare al mondo da Carlo Monni, il compianto Bozzone di Berlinguer ti voglio bene, «il film che – dice Gioffredi – per quelli delle nostre parti è Vangelo». Entrambi i protagonisti si chiamano Giulio e alla fine si incontreranno in una situazione cimiteriale: poesia e surrealismo.

Opino che talune inquadrature danno prova di grande virtuosità, muovono l’immagine come in genere non si fa – non si fa più –, testimoniano lo studio. Niente si improvvisa, almeno a livello tecnico, spiega Gioffredi: «Anche quel carrello circolare che dici e che ruota intorno al personaggio di Gabriele Pini che a sua volta gira su stesso in senso inverso, è una doppia citazione, un movimento che aveva ripreso Jarmusch ispirandosi a Fassbinder». Roba tosta, che ha a che vedere con la filosofia intrinseca del film: «Una commedia melodrammatica, in cui abbiamo cercato di rendere la dinamica interiore dei personaggi in maniera cinematografica». Dovrebbe essere la formula di qualsiasi buon film. Ma a parte quelli del collettivo Snellinberg, in Italia sembra non ricordarselo più nessuno, che il cinema si fa con la tecnica.