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Sei ancora qui

2018
Titolo Originale:
I still see you
REGIA:
Scott Speer
CAST:
Bella Thorne (Veronica Calder)
Dermot Mulroney (August Bittner)
Richard Harmon (Kirk Lane)

Il nostro giudizio

Sei ancora qui è un film del 2018, diretto da Scott Speer

Bisogna chiarire immediatamente una cosa: non esistono soggetti pessimi in partenza. Per quanto possano sapere di già visto, per quanto si rifacciano a una tradizione narrativa consolidatissima, c’è sempre la possibilità di renderli interessanti. Avrete capito tuttavia, leggendo il voto, che questo non è stato il caso di Sei ancora qui. Anzi, diciamocela tutta: siamo di fronte ad un film davvero brutto, un pasticcio imperdonabile. Tratto dal romanzo Break my heart 1000 times, il film è diretto dall’ex videoclipparo Scott Speer, già salito quest’anno agli onori della cronaca per il dramma sentimentale Il sole a mezzanotte, titolo da cui ha riciclato Bella Thorne come protagonista. La Thorne (Amityville – Il Risveglio, La Babysitter) stavolta è Veronica, detta Ronnie, una ragazza che vive in un mondo stravolto anni prima da un disastro nucleare. L’esplosione ha praticamente fatto cadere la barriera che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Infatti questi ultimi, tra i quali c’è il padre di Ronnie, continuano ad apparire come fantasmi, ripetendo sempre lo stesso gesto e non interagendo in alcun modo con gli esseri umani. Ronnie si renderà conto però che qualcosa sta cambiando: i cosiddetti “redivivi” stanno aumentando sempre di più e uno di loro riesce addirittura a creare un contatto con lei.

L’impressione iniziale è dunque quella di essere di fronte ad un film di fantascienza apocalittica con qualche venatura orrorifica. Lo sviluppo del plot in seguito ci smentisce aggiungendo a cotanto carico anche il thriller d’indagine e l’inevitabile romance: un’imponente Babele di generi che potrebbe anche stare in piedi se non fosse così caotica e mal sfruttata. Scott Speer si dimostra singolarmente inetto nello sviluppare tutte le tematiche del film, ma sopratutto non pare esservi, nella sua regia, la benché minima cognizione dei ritmi narrativi che la macchina da presa deve seguire. Si passa di fatto da dialoghi testardamente prolungati ed eccessivamente didascalici a momenti action spaventosamente sbrigativi, spesso risolti in neanche una decina di inquadrature o, peggio ancora, con un ponte sonoro a collegare il cambio di scena. Il risultato è la noia, anche da parte dello spettatore più dotato in quanto a soglia dell’attenzione. A svilire ulteriormente il tutto, un’ambientazione invernale davvero anonima e fotografata maldestramente come ne L’uomo di neve di Tomas Alfredson (e con questo ho detto tutto).

Come se non bastasse un regista inadatto al genere, la sceneggiatura, firmata da Jason Fuchs, dà il definitivo colpo di grazia al film. I personaggi sono all’insegna del cliché, privi di qualsivoglia sfaccettatura, ogni loro azione o battuta sembra buttata lì. A nulla serve cercare di renderli più ironici o grotteschi, l’interesse verso ognuno di loro scema immediatamente. L’evoluzione della trama è trattata allo stesso modo, aggiungendo però incoerenza e passaggi poco logici. Ciliegina sulla torta, il finale più prevedibile e telefonato che si potesse avere; dire che l’identità del vero villain non è quasi mai in dubbio corrisponde a usare un eufemismo. Detto ciò, perché mezzo punto in più rispetto al voto minimo? Perché, ripeto, il soggetto nascondeva delle potenzialità interessanti: vi era di mezzo la scienza, il confine vita-morte, l’elaborazione del lutto. Tutte tematiche sfruttabili a man bassa ma infine accartocciate, compresse e cestinate in nome di non si sa cosa. I brividi arrivano solo nell’ultima allarmante sequenza: quella che battezza ante litteram un potenziale quanto pleonastico sequel.