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Sea Fever

2019
REGIA:
Neasa Hardiman
CAST:
Connie Nielsen (Freya)
Hermione Corfield (Siobhán)
Dougray Scott (Gerard)

Il nostro giudizio

Sea Fever è un film del 2019, diretto da Neasa Hardiman.

Immaginiamo un peschereccio che prende il largo e difficilmente pensiamo a quanto sia precaria la situazione di chi è a bordo, di come sia dura e imprevedibile non solo una pesca ordinaria, ma anche le spese notevoli che la manutenzione e il soggiorno su una nave del genere significano mediamente per chi la usa per tirare avanti. Di più, non pensiamo che l’equipaggio non sa assolutamente se tornerà sano e salvo a casa. Di conseguenza non è così scontato per lo skipper accettare che la giovane ospite, Siobhán, uno scienziato poco espansivo e presissimo dalle proprie ricerche interpretato dalla giovane Hermione Corfield, sia una rossa. Una donna dai capelli di quel colore, su una nave del nord porta sfiga, e uno skipper è costretto a fare affidamento sugli dei e la superstizione, se desidera convivere con l’incertezza del mare. Il film sembra inizialmente un atipico monster movie, con il leviatano di turno dalle forme abbastanza insolite di una gigantesca medusa, tutt’altro che rivoltante e minacciosa. Ma non è il vero film. Scordatevi l’assedio, Moby Dick e tutto il resto. Il punto della storia non è quello. Il mostro planctoniano diffonde un virus nell’equipaggio, trasformando Sea Fever (scritto dalla Hardiman prima del 2019 quindi in tempi non sospetti) in una metafora ideale della situazione che tutti, a riva e in mare aperto stiamo vivendo. Sea Fever è un fanta-thriller accattivante, rispetta gli elementi tipici di un horror marittimo (i presagi, l’isolamento, la minaccia costante e c’è persino del gore) ma tenta di sciogliere tutta una serie di sezioni narrative ingessate e anchilosare agli stereotipi.

Per esempio la figura dello scienziato, esemplificata sia dalla rossa Siobhán che il rifugiato siriano Amid (Ardalan Esmaili), entrambi molto diversi dal classico modello anaffettivo e inadeguato alla vita pratica del ricercatore. Lei ha delle difficoltà sociali ma questo non le impedisce di mostrare passione e fantasia, mentre lui è un ribelle che per quanto dotato non ha alcun interesse a vestire i panni del nerd pieno di formule matematiche nel cervello. Inevitabile pensare a La cosa di Carpenter, per via dell’ambiente circoscritto e disagiato, ma in sostanza Sea Fever parla del senso di isolamento e di pericolo che respiriamo ogni giorno, e soprattutto fa riflettere sulla situazione emotiva di Siobhán. La ragazza sta crescendo. La sua intelligenza le ha permesso di raggiungere presto grandi risultati nella ricerca scientifica, ma tutto il resto è rimasto indietro. Fatica a stare in mezzo ai suoi simili. Il suo docente all’inizio del film la esorta a sporcarsi le mani e farsi degli amici, ma lei è così complessata che fugge via da un compleanno in preda a un senso di panico, frainteso con la sua stronzaggine. Sulla nave preferisce fingere di non aver fame, pur di non sedersi alla stessa tavola con gli altri dell’equipaggio. Poi le cose piano piano cambiano, lei si rilassa e inizia a sentirsi bene. Il successo (illusorio) della pesca fa rilassare tutti e trasforma un soggiorno forzato di un gruppo di estranei in una specie di famiglia. Purtroppo la malattia che si diffonde nel peschereccio blocca tutto questo. Siobhán si vede negare un naturale sviluppo della propria personalità sociale: il virus la ricaccia nel proprio buco di solitudine e di oscuri blocchi emotivi.

Sea Fever ci parla non solo dell’abisso di oscurità che un contagio infiltra nella nave sociale, mandandola a picco, ma ci racconta di come la prospettiva sia assai più tragica per chi sta formando se stesso, chi sta passando dall’adolescenza alla maturità ed è costretto a vedere questo percorso travagliato da una iattura biologica per quanto plausibilmente prevedibile, comunque sempre inaspettata e inaccettata. Il film tenta una rivoluzione strutturale e per molti versi ci riesce. La terza parte, il cosiddetto terzo atto, nelle intenzioni della regista non doveva essere la parte residuale della trama, dove tutto è stato detto e non resta che combattere, inseguire, uccidere. Sea Fever usa il terzo atto per espandere una visione emotiva disegnata progressivamente nei primi due, tra profonda umanità e mito. Il film è un tentativo della Hardiman di riflettere sull’unione collettiva di tutti noi in un solo eco-sistema. Chiunque, nessuno escluso, dipende dalle cazzate dell’altro, ognuno ha un ruolo nel raggiungimento dell’obiettivo ovvio ma innegabile, di vivere pacificamente in questo pianeta. Bisognerebbe farlo vedere ai vari gozzovigliatori delle sei pomeridiane, a coloro che mollano in terra mascherine usate e soprattutto a chi evade dalla propria quarantena perché è troppo annoiato in casa.