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Rubber

2010
Titolo Originale:
Rubber
REGIA:
Quentin Dupieux
CAST:
Stephen Spinella
Jack Plotnick
Wings Hauser

Il nostro giudizio

Rubber: una commedia dell’assurdo che parte da Beckett per sconfinare nello splatter: tra cervella e budella, la caratteristica saliente è la generale (e volutissima) mancanza di senso. 

Un distesa si sabbia e polvere bruciate dal sole. Il silenzio, gli arbusti, la canicola soffocante. Parrebbe essere l’inizio di un moderno western, tranne per un particolare: numerose sedie disposte al suolo, tra le piante, formano una specie di gincana per degli ospiti invisibili. Poi arriva una macchina che butta giù le seggiole, e quando il mezzo si ferma dal baule sbuca fuori un poliziotto, il tenente Chad (Stephen Spinella), che guarda verso lo spettatore e si spende in un monologo senza senso sulla mancanza di senso nel cinema, elencando una serie di situazioni in celluloide che secondo lui non avrebbero il minimo significato. Poi vediamo dei tizi appostati su un’altura e che, armati di binocoli agli infrarossi, si godono lo spettacolo commentando tutto e disturbandosi a vicenda come se si trovassero in una sala cinematografica.
A quel punto comincia il film vero e proprio. Dalle sabbie spunta un vecchio copertone dimenticato che rotola bellamente a destra e a manca, schiacciando insetti e bottiglie di plastica prima, facendo esplodere piccoli animali e ignari passanti poi. La ruota si carica di un’energia malsana e preternaturale, tutta sconvolta da strane palpitazioni tremebonde, punta all’obiettivo e preme il grilletto. L’onda d’urto è devastante, e distrugge in uno scoppio di budella e cervella tutto ciò che trova innanzi, un corvo capitato lì per caso (le cui viscere saranno usate da un ragazzetto come condimento per la pizza), un automobilista un po’ maleducato, una donna delle pulizie e così via.
Nessuno crede alla storiella di uno pneumatico assassino, anche se testimonianze e indizi non mancano. Ma in un mondo al rovescio dove Beckett va a braccetto con Ionesco e tutta la combriccola, alla fine qualcuno deve pur convincersi che la logica non conta più molto.
Il tenente Chad è d’altronde uno in gamba, e per prima cosa avvisa i colleghi che non corrono alcun pericolo, perché tutto è finto e nulla di quanto stiamo vedendo è reale. E perché il messaggio arrivi forte e chiaro, si fa crivellare di proiettili da un giovane e sprovveduto agente. Siccome non muore, il poliziotto continua l’indagine fino a mettere a punto un incredibile piano per sbarazzarsi del folle copertone, il quale, dopo essersi invaghito di una bella figliola (Roxane Mesquida), se ne sta tutto il tempo in ammollo in piscina o spaparanzato sul divano a guardare la partita in tv.
E gli spettatori di cui sopra. Appaiono di tanto in tanto, facendo capolino in una narrazione già di per sé spezzata e costantemente interrotta da digressioni e rallentamenti. Fino a quando un cameriere occhialuto non serve loro un pranzetto avvelenato che li stermina in blocco. Quindi, non restando più nessuno o quasi con cui chiacchierare, l’uomo si suicida addentando una coscia di tacchino.
Morale della favola, nessuna, a quanto pare, eppure, nonostante le critiche fondamentalmente negative, l’Huffington Post è riuscito a definire il film del francese Quentin Dupieux “una parodia sciocca e acuta allo stesso tempo”. Parodia di chi o cosa, non si sa o perlomeno è difficile comprenderlo, ma forse è proprio questo lo scacco critico che il nostro regista ha saputo intavolare. In un immaginario estetico ed interpretativo dove tutti hanno la spiegazione pronta, e utilizzano sovente l’ironia e la parodia come termini ombrello sotto cui macerare di tutto, ecco che un prodotto senza arte né parte finisce per diventare il bijou coccolato di qualcuno che un senso lo deve trovare per forza. Dupieux ha colpito nel segno, ma pochi se ne sono accorti.