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Red State

2011
Titolo Originale:
Red State
REGIA:
Kevin Smith
CAST:
Michael Parks
Melissa Leo
Michael Angarano

Il nostro giudizio

Red State è un film del 2011, diretto da Kevin Smith

Se si chiede a Kevin Smith quale è stata la motivazione della svolta horror che nella sua filmografia è avvenuta con Red State (2011) ed è poi proseguita con Tusk (2014) e in parte anche con Yoga Hosers (2016, seconda parte della trilogia definita dal regista True North), la risposta è che si è trattato del compiersi di un auspicio, di qualche cosa che Smith aveva sempre sperato accadesse. Red State si presenta dunque per bocca del suo regista come un horror, con la funzione non tanto di spaventare il pubblico, ma – puntualizza l’interessato – di metterlo a disagio. L’obiettivo, il suo film, lo ha certamente raggiunto con le armi che da sempre, nel genere commedia, erano elettive nell’arsenale del regista, il sarcasmo, l’abiura a qualunque compromesso e un racconto che non mitiga niente di ciò che ha deciso di raccontare. Proseguendo, in questo senso, nella scia del precedente Dogma (1999) –  dove il fondamentalismo protestante era stato messo nel mirino del regista -, Smith si concentra in Red State sull’aggregazione della Westboro Baptist Chruch e sul suo capo, l’avvocato Fred Phelps (oggi defunto) che nel film si chiama Abin Cooper e viene incarnato in modo efficacissimo dal compianto Michael Parks. Tutto comincia quando al regista capitano per le mani dei filmati che documentano la presenza di membri di questa chiesa/setta  in contesti drammatici, issando cartelli che inneggiano all’azione di serial killer o di stragisti psicopatici come se si trattasse di strumenti dell’ira divina.

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Su questo pentagramma del fanatismo spinto alle estreme conseguenze, Red State suona le suo melodie migliori, a cominciare dall’allucinante punizione che nel chiuso della comunità viene riservata agli omosessuali, letteralmente incellofanati con della pellicola trasparente e quindi finiti con un colpo alla testa. L’orrore per Smith non può non rivestirsi dei connotati della realtà, e non può non essere del tutto immanente. In Tusk avrebbe ceduto qualcosa al fantastico e ancora di più questo sarebbe accaduto con Yoga Hosers, ma in Red State non c’è nulla oltre all’uomo che sia più terribile dell’uomo stesso. La struttura di genere del film è, peraltro, qualcosa di niente affatto lineare e scontato. Se l’attacco è da classico teen-movie e indossa un abito brillante, da commedia, con la spedizione dei tre giovani protagonisti (Michael Angarano, Kyle Gallner e Nicholas Braun) dalla prostituta ( 201) che li ha adescati on line con la promessa di sesso facile, per indurli a precipitare nella trappola dei fanatici, la parte successiva che porta lo sguardo dei malcapitati nel sancta sanctorum di Michael Parks è la parte più squisitamente orrorifica, in cui la brama voyeuristica dello spettatore che vede svelato il mostro e le sue cerimonie atroci, viene soddisfatta.

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Ma l’omogeneità dell’operazione la si commisura sullo stile globale, sempre asciutto, essenziale, eccezionalmente realistico, capace di coinvolgere chi guarda, pur non trattandosi di cinema tridimensionale, quasi fisicamente all’interno del campo di forze che si danno battaglia all’ultimo sangue, lungo le linee di tiro incrociato tra i settari e gli agenti federali che cercano di stanarli. Rispetto ai modelli che Smith ha declinato come ideali – maestri di un cinema di genere che avrebbe sempre voluto fare e che alla fine ha fatto, cominciando proprio da questo film –, cioè David Cronenberg, David Lynch, i fratelli Coen e Quentin Tarantino, la riuscita di Red State resta comunque qualcosa di peculiare e di assolutamente personale, che non accetta confronti. Confermando la teoria che Kevin Smith, qualunque strada decida di affrontare, alla fine non potrà che realizzare un film che, prima di qualsiasi altra cosa, sarà un film alla Kevin Smith.